Un terzo della popolazione mondiale evita di leggere le notizie. Il motivo? Per più della metà delle persone (il 58 per cento) sta nella negatività delle news e nel senso di impotenza che generano, soprattutto quando i lettori non vedono soluzioni per risolvere i temi trattati. È questo il dato più evidente che emerge dall’ultima edizione del “Digital News Report” della Reuters (l’agenzia di stampa britannica), uno studio tra i più autorevoli che si avvale di un sondaggio condotto su 75 mila intervistati nei cinque continenti.
La percentuale di quanti decidono, spesso o a volte, di non leggere notizie è cresciuta, in particolare, del tre per cento negli Stati Uniti fino a raggiungere il 41 per cento degli intervistati e nel Regno Unito dove ha toccato il 35 per cento. In Italia arriva al 36 per cento.
Secondo il Report, il motivo per cui le persone evitano le notizie è perché non si fidano o non credono che informarsi costituisca un valore per la loro vita.
Il rifiuto generalizzato delle news negative si inquadra nell’analisi complessiva che spiega la caduta vertiginosa delle copie dei quotidiani registrata nell’ultimo decennio nel mondo e drammatica anche in Italia a partire dal 2008. Sinora era stata attribuita in gran parte allo sviluppo esponenziale di internet, dei social media e dei grandi motori di ricerca che hanno attratto la gran fetta del mercato pubblicitario e quindi dei lettori inflazionando la rete con ogni genere di informazioni. Vere o false che siano. Il Report britannico evidenzia che tra le cause principali della crisi dei giornali esistono fattori di contenuti e psicologici, a cominciare proprio dalla negatività delle notizie.
Oggi basta cliccare sul telefonino appena svegli per sapere in un istante cos’è avvenuto nel mondo durante la notte. Quando si esce di casa si è già fatto il pieno delle informazioni che non ci molleranno un istante per tutto il resto della giornata. Che cosa ci raccontano? Restando ai notiziari italiani, l’agenda quotidiana dà il buongiorno con migranti annegati o stremati sulle navi delle Ong, omicidi efferati soprattutto di donne, violenze di ogni genere che spesso coinvolgono i minori, incidenti a catena, disastri climatici, malasanità, blitz contro organizzazioni criminali, scandali che coinvolgono insospettabili politici e imprenditori. E via leggendo sino alle cronache locali che non risparmiano ogni tipo di cattive notizie.
Non è dunque un caso che già da tempo qualche testata si sia inventata la rubrica “Buone notizie” e con il medesimo nome il Corriere della Sera pubblichi un ricco supplemento settimanale. C’è la caccia al fatto positivo ed emblematico che bilanci nelle pagine il quadro purtroppo negativo di ciò che, secondo i canoni classici del giornalismo, fa notizia e meriti un titolo.
Una volta, ma ovviamente è sempre valida, il giovane cronista imparava la regola delle tre S (sangue, soldi, sesso), per capire se la storia meritasse di essere seguita e raccontata. Con tutte le varianti dei cosiddetti “valori notiziabili” (notorietà dei personaggi, vicinanza del fatto, coinvolgimento e interessamento diretto della popolazione, etc.). La notizia, quando riconosciuta tale, è sempre una notizia. Ma non basta più per far leggere le news e vendere i giornali.
Secondo gli analisti del Report, si può limitare il rischio di mettere in fuga i lettori con le “bad news” fornendo più informazioni possibili con l’aggiunta di componenti che vadano oltre i problemi e soprattutto indichino soluzioni positive. Il compito dei giornali appare sempre più quello di andare oltre la notizia evitando la negatività assoluta che porta al rifiuto e mostrando invece gli aspetti di un mondo che è o può essere migliore. Questo nuovo modo di fare giornalismo in realtà è già in atto, ma a quanto pare il lavoro è ancora lungo per recuperare credibilità e interesse tra i lettori.