La statua di Aldo Moro si trova a Maglie, nel cuore del suo Salento a pochi chilometri da Lecce. Venne costruita e inaugurata in occasione del ventesimo anniversario della morte, nel 1998. Era stata disegnata dallo scultore fiorentino Antonio Berti, scomparso nel 1990, su commissione della direzione della Democrazia Cristiana, che pure non esisteva più. Nel 1956, lo stesso Berti aveva progettato il monumento ad Alcide De Gasperi, che venne realizzato a tempo di record a soli due anni dalla morte del leader storico della Dc, nella natale Trento. Una statua imponente di quattro metri.
<<L’unico esempio di grandeur della vecchia Dc, il solo cedimento del partito-stato alla tentazione di erigere un monumento a se stesso>> sottolinea Marco Damilano, giornalista politico e autore del recente volume “Un atomo di verità: Aldo Moro e la fine della politica in Italia” (Feltrinelli). Damilano si sofferma sul confronto tra le due statue commemorative per spiegare il diverso atteggiamento tenuto dal partito per De Gasperi e poi per il leader pugliese.
La statua di Moro spunta in una stradina nei pressi del Municipio, di fronte alla palazzina di famiglia, incastrata e quasi soffocata in un angolo senza apertura. Alla base c’è scritto solo “Ad Aldo Moro”. Sotto il braccio sinistro Moro porta una copia arrotolata del quotidiano del Pci, l’Unità. Nell’idea dello scultore Berti doveva rimandare all’ultima operazione politica dello statista, l’accordo tra la Dc e il Pci, che all’epoca non c’erano già più. Nella realtà – rileva Damilano – tramanda alla memoria un Moro senza partito, o iscritto a un partito che non è il suo, che lo ha abbandonato al suo destino per la “ragion di Stato”. Trasforma un politico che fu sempre democristiano in un indipendente di sinistra, un catto-comunista, anzi un “comunista mascherato” come lo rappresentavano da vivo i suoi nemici. Ma quanti oggi (e non solo giovani) ricordano il dibattito politico di fine anni Settanta, la tragedia personale e nazionale dei tragici 55 giorni del sequestro, di come i partiti si schierarono tra chi per ragione di stato voleva la linea dura e chi chiedeva una mediazione con i terroristi per liberare Moro a tutti i costi?
Il quarantesimo anniversario della strage di via Fani e poi della barbara uccisione dello statista pugliese (il 9 maggio) è diventato l’occasione per riaprire il dibattito storico e politico sulla tragedia di Moro. Con i tanti interrogativi sul ruolo dei notabili della Dc e degli altri partiti al governo. Oggi si dice con chiarezza che da una parte c’erano gli assassini, gli ex brigatisti rossi, e dall’altra le vittime con i loro familiari ristabilendo una verità che sembrava ipocritamente nascosta dietro le interviste ai terroristi e ai loro complici. Restano aperti i retroscena del crimine. Come scrive il giornalista dell’Ansa Paolo Cucchiarelli in un altro libro appena pubblicato (“Morte di un presidente”) dopo cinque processi non è emersa la verità sulla strage di via Fani e su tutto ciò che ne seguì, ma un castello di bugie, depistaggi e contraddizioni. La conclusione è che le Brigate Rosse hanno mentito più e più volte, dietro e durante il rapimento del presidente della Dc c’è stato un chiaro disegno e complotto internazionale, il governo ha fatto valere la ragione di Stato coperta ancora dal segreto dei documenti.
Afferma Cucchiarelli: <<Ciò che fino a oggi sembrava incomprensibile o caotico – le allusioni delle lettere di Moro dalla «prigione del popolo», il comportamento paradossale dei suoi carcerieri, le oscillazioni dei politici, il coinvolgimento del Vaticano, della malavita organizzata, di Gladio, della P2, dei servizi segreti statunitensi e soprattutto l’identità di chi uccise il presidente della Dc – appare finalmente chiaro e dotato di saldatura logica>>.
Da quel maggio del 1978 la politica è cambiata. Quarant’anni dopo siamo entrati nell’epoca dei Di Maio, Salvini, Renzi. Ma non c’è più un Aldo Moro capace di tessere relazioni tra poli distanti e parlare a tutti con il linguaggio della politica.