Fare il giornalista è sempre più difficile e pericoloso in molte parti del mondo. Con l’affermarsi dei social network e i vertiginosi mutamenti dei media tradizionali, sta cambiando il modo di lavorare, ma non l’importanza della stampa come estremo baluardo della libertà di informazione, di controllo della politica e del potere. I giornalisti, pur con i loro limiti e difetti (oggi siamo nell’epoca delle fake news), continuano a svolgere l’indispensabile compito di “cani da guardia” nelle democrazie occidentali, mentre nei paesi governati da regimi autoritari restano le voci (spesso isolate e solitarie) del dissenso. Proprio lo sviluppo di internet consente a questi coraggiosi operatori della comunicazione di far conoscere all’esterno ciò che avviene nel loro Paese dove vengono chiusi i giornali, perseguitati e arrestati i giornalisti, spesso torturati e uccisi. Giornalisti a tutto campo, reporter e blogger che si muovono con telefonini e pc per documentare elezioni irregolari, scandali finanziari, politici e imprenditori corrotti, persecuzioni religiose ed etniche, sparizioni ed arresti di dissidenti o esponenti contrari al regime.
(nel link l’articolo sull’Unione Sarda): giornalisti.
Ma il lavoro di questi professionisti, in gran parte mal pagati o autofinanziati con i loro scarsi mezzi, non si ferma alla difesa della libertà di parola e quindi delle libertà individuali anche dove non c’è democrazia, ma si battono contro lo strapotere della criminalità organizzata, i trafficanti di droga e di uomini, le mafie e gli oligarchi che creano imperi con la collusione dei governanti e dei loro clan familiari.
Lo scorso ottobre è stata uccisa la maltese Daphne Caruana Galizia, fatta saltare con una bomba nascosta nella sua auto. Un omicidio in tipico stile mafioso per eliminare una giornalista scomoda che continuava ad indagare e a scrivere sui traffici illegali. Dieci persone sono state arrestate, ma resta il mistero sui veri mandanti.
La coraggiosa Daphne, alla quale il Parlamento Europeo nei giorni scorsi ha intitolato la sala stampa, è l’ultima di una tragica lista di 65 giornalisti uccisi nel mondo mentre svolgevano il loro mestiere nel 2017. Lo rileva l’ultimo rapporto di Reporters sans frontières (Rsf), sottolineando che 50 erano giornalisti professionisti, sette blogger e otto collaboratori dei media. Dieci le donne. Ventisei di loro hanno perso la vita al lavoro, vittime di bombardamenti e attentati. Altri 39 sono stati assassinati.
Il Paese più pericoloso resta la Siria, con 12 giornalisti uccisi, davanti al Messico (11), Afghanistan (9), Iraq (8) e Filippine (4). Negli ultimi 15 anni i giornalisti uccisi sono stati 1035.
Queste statistiche non sono freddi numeri, ma rappresentano con forza l’importanza del lavoro di questi professionisti che, nonostante i rischi quotidiani, non si lasciano intimorire. Dietro ogni numero, infatti, c’è il nome di uno di loro, i suoi articoli, le sue inchieste, una famiglia, i colleghi, un Paese trasformato in un campo di battaglia o in una immensa prigione. Non c’è bisogno di commentare questo fenomeno purtroppo in drammatica crescita anche in Stati che si dichiarano democratici. Le statistiche parlano da sole.
Ma non solo morti. Se non vengono uccisi, i reporter scomodi finiscono in carcere. Il dato di quelli imprigionati ha fatto registrare quest’anno un nuovo record negativo, passando dai 259 del 2016 ai 262 del primo dicembre scorso. Rischiosissimo se non impossibile lavorare in molti Paesi. Il primato della repressione spetta alla Turchia di Tayyip Erdoğan dove sono 73 i giornalisti in carcere, tutti accusati dello stesso reato: crimini contro lo Stato. Seguono Cina con 41 casi ed Egitto con 20, Eritrea e Siria. Il 97 per cento sono giornalisti locali, 22 sono le donne (8 per cento). Molti sono malati e necessitano di cure fuori dal carcere. Molti sono stati maltrattati e torturati. E molti ancora sequestrati e scomparsi non figurano neppure un quel numero.