Se le immagini fanno la Storia

Verso una public history

La storia in tv e nel web

Il fungo atomico su Hiroshima, i volti glaciali e arroganti dei gerarchi nazisti durante il processo di Norimberga, l’ingresso festante degli americani a Roma, lo sbarco degli alleati sulle spiagge della Normandia, la bandiera rossa che sventola sul Reichstag a Berlino. Sono alcune immagini iconiche entrate nella storia. O per meglio dire che fanno la storia. Raccontano, in bianco e nero o con i colori sbiaditi dell’epoca, gli eventi emblematici del Secondo conflitto mondiale, girate dai cineoperatori al seguito delle truppe o a bordo degli stessi velivoli che andavano a sganciare le micidiali bombe sugli obiettivi, ma anche dagli addetti al servizio propaganda che filmavano con scopi ben diversi da quello di documentare i fatti. Le immagini di per sé non sono una prova oggettiva delle verità, ma vanno analizzate con attenzione per arrivare ad una interpretazione critica. Oggi, al tempo di internet, la nostra vita quotidiana è immersa in un oceano di video che ci arrivano da ogni medium, dalla tv al cellulare, dove si può diffondere di tutto ed è facile cadere nelle fake news.

Quelli che erano chiamati “mezzi di comunicazione di massa” ora si sovrappongono, si combinano, si piegano con maggiore flessibilità a usi, tempi e spazi dettati dalle esigenze individuali di chi li utilizza. Il cambiamento non è confinato solo alla tecnologia, ma tocca la “cultura” nel senso più ampio e antropologico della parola: un patrimonio di conoscenze, di nuove convenzioni sociali e di inedite espressioni di socialità.

 

A questo corrisponde la diffusione del concetto di public history il quale fa riferimento alla possibilità che la narrazione storica esca dalle aule universitarie, così come dai convegni o dalle riviste scientifiche, e incontri l’interesse più o meno diffuso di conoscere e ricostruire il passato da parte di una audience sempre più vasta.

Bisogno di storia

In un periodo in cui si parla di “bisogno di storia”, di “uso pubblico della storia” e del rapporto attivo fra “Storia e Memoria”, bisogna riflettere attentamente su cosa sanno offrire in concreto i nuovi mezzi di comunicazione agli storici e alla gente. E ancor di più è necessario discutere su cosa si possa chiedere ai nuovi media di offrire anche in rapporto al nostro patrimonio audiovisivo.

Gli archivi pubblici custodiscono un’enormità di materiale filmato a disposizione degli studiosi e degli esperti: pensiamo solo alle Teche della Rai che ogni giorno forniscono video preziosi per i programmi tematici e per i servizi giornalistici o alla Sardegna Digital Library della nostra Regione.

Per non parlare del prezioso lavoro di archiviazione, restauro e recupero di materiali audiovisivi che da mezzo secolo svolge la Cineteca Sarda operando in sintonia con le scuole, l’università e le associazioni culturali, alla stregua di altre (poche, ma dinamiche) Cineteche pubbliche nelle altre regioni.

Ma le case di ognuno di noi conservano immagini che non di raro emergono dal privato per finire sui giornali, in Tv o sui social, quali originali e uniche testimonianze di un evento o di un personaggio.

Insomma, dagli archivi di carta agli archivi di immagini. Oggi per raccontare la storia, non si può più prescindere dai documenti filmati. Nuove specializzazioni si affermano tra gli studiosi e i giornalisti, questi ultimi chiamati a svolgere un ruolo primario di divulgatori, di solito con la collaborazione degli stessi storici. Questo spiega il successo di trasmissioni come “Passato e presente” di Raitre condotta da Paolo Mieli (nella foto di in evidenza), sulla scia dei primi programmi curati da Gianni Biasich, Arrigo Petacco e Sergio Zavoli.

Cosa non c’è in tv e nel web, soprattutto perché?

La televisione può essere e di fatto lo è già  – citando il critico del Corriere della Sera Aldo Grasso – un grande libro di storia. Oggi il vero problema non è il materiale, praticamente infinito, quanto il rischio di un immenso archivio di cui non è stata trovata ancora la chiave per renderlo gestibile. <<Un archivio senza archivisti>>, come dice lo stesso Mieli. Nell’era di internet emerge forte il dibattito sulla relazione tra memoria e diverse tecnologie con l’illusione di avere tutto online per sempre. Semmai, riprendendo il massmediologo israeliano Jerome Bourdon, ci si dovrebbe chiedere cosa non c’è e soprattutto perché.

Fonti:

L’Unione Sarda, 11.04.2019

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