Quando un dittatore o un governo autocratico non riescono a fermare la protesta popolare, dopo le repressioni di piazza, pensano subito a mettere a tacere il dissenso e a oscurare i fatti oltre i propri confini. In che modo? Chiudendo le testate e le tv di opposizione, finanziando e monopolizzando la stampa consenziente, bloccando i siti liberi o di controinformazione sino a silenziare internet nell’intero paese. Per fare questo agiscono con minacce e arresti di giornalisti sotto le accuse più inverosimili, da quelle di fomentare i disordini alla pubblicazione di fake news antigovernative, arrivando nei casi più eclatanti all’imputazione di tradimento e di spionaggio (come in Cina) che in certi paesi prevede pene pesantissime e la condanna a morte.
Non è vero che il mestiere del giornalista stia scomparendo in quanto si vendono meno giornali e la crisi dell’editoria ha travolto il settore un po’ ovunque nel mondo. La realtà è ben diversa, perché mai come in questi ultimi anni in cui le copie sono precipitate nelle edicole, il lavoro giornalistico si è sviluppato in modo esponenziale grazie proprio a internet che ha aperto scenari illimitati per l’informazione. Oggi, grazie alle notizie che arrivano da ogni angolo del globo in tempo reale e senza filtri della censura, è possibile sapere cosa succede oltre i confini blindati dove spietati presidenti di repubbliche democratiche solo di nome, hanno messo il bavaglio alla stampa.
«In tutto il mondo si è scatenata una campagna incessante contro i giornalisti, per il loro ruolo di garanti di una società libera e informata», scrive Arthur Gregg Sulzberger: «Per impedire ai giornalisti di portare alla luce verità scomode e costringere il potere a rendere conto delle sue azioni – afferma l’editore del New York Times – un numero sempre maggiore di governi mette in atto misure esplicite, in certi casi violente così da screditare il lavoro di denuncia e ridurli al silenzio attraverso l’intimidazione».
Per nascondere il proprio operato, basta liquidare le critiche come fake news, un metodo ormai collaudato da chi è maestro nel creare notizie false: Trump è l’esempio più clamoroso, seguito da presidenti illiberali quali l’ungherese sovranista Orban, il turco Erdogan, i generali golpisti del Myanmar, il brasiliano Bolsonaro e via elencando.
La situazione globale – sottolinea il rapporto di “Reporters Sans Frontières (l’Ong che ha sede a Parigi) – è drammatica. Nel 2020 i giornalisti arrestati mentre esercitavano il loro diritto di informare sono stati 387, dall’inizio di quest’anno l’attacco alla libertà di informazione si è intensificato. L’ultimo è di pochi giorni fa, dove nella capitale Naypyitaw, è stato sequestrato da agenti in borghese il corrispondente birmano della Bbc News, Aung Thura. La denuncia di una delle più importanti agenzie di stampa quale la britannica Bbc, che ha fatto appello alle autorità locali, non spaventerà certo i generali al potere. Come non si preoccupa il dittatore bielorusso Lukashenko che, in barba alle prese di posizione ufficiali della Ue e della comunità internazionale, vanta il record di arresti di giornalisti. Di recente sono state condannate Katerina Bakhvalova, 27 anni, e Daria Chultsova, 23 anni, ammanettate a Minsk lo scorso novembre mentre erano in piazza a trasmettere in diretta le immagini di una protesta non autorizzata. Dall’inizio delle manifestazioni sono circa 300 i reporter detenuti e in attesa di giudizio solo in Bielorussia.
“Reporters Sans Frontières” fa notare che il 61 per cento del totale dei giornalisti privati della libertà si trova incarcerato in uno dei seguenti cinque paesi: Siria (27), Vietnam (28), Egitto (30), Arabia Saudita (34) e Cina (117). A questi si aggiungono una quarantina di birmani incarcerati dopo il colpo di stato di febbraio.
E qui è doveroso rilevare il lavoro delle giornaliste, in prima fila con i colleghi uomini dove c’è più pericolo. Il rapporto indica che il numero delle donne arrestate è aumentato del 35 per cento (alla fine del 2020 erano 42). Pronte a subire violenze e umiliazioni in carcere, senza paura di finire uccise come la maltese Daphne Caruana Galizia eliminata con un’autobomba nel 2017. Con buona pace dei video ufficiali, dei tweet e delle conferenze stampa di presidenti e portavoce che ormai non rispondono più alle domande dei giornalisti.