Il blocco delle manifestazioni a causa del coronavirus, per la prima volta dal dopoguerra, ha fermato l’evento solenne che ogni anno si svolge il 24 marzo per commemorare la strage delle Fosse Ardeatine. Ma non il ricordo che resta vivo e si rinnova nella memoria di tutti gli italiani, proprio oggi che il Paese sta affrontando unito un’enorme emergenza, contro un nemico micidiale e invisibile.
Il nemico di allora, invece, era ben visibile, con la faccia feroce degli occupanti tedeschi. Quella carneficina nelle cave alla periferia di Roma nel 1944 non fu l’unica e neppure l’ultima perpetrata dai nazisti durante l’occupazione militare della capitale dopo l’armistizio dell’8 settembre. Ma più di tutte ha colpito la coscienza collettiva di un’intera nazione perché avvenuta nel luogo che rappresenta l’Italia.
Le 335 vittime, barbaramente uccise dai tedeschi per rappresaglia dopo l’attentato di via Rasella in cui morirono 33 soldati ad opera di un gruppo dei Gap comunisti, non erano solo militari e partigiani. Nella lista compilata dal maggiore delle SS Herbert Kappler vennero inclusi uomini considerati pericolosi per la loro attività politica, 76 ebrei ed anche persone estranee alla Resistenza, in parte arrestate durante il rastrellamento di via Rasella, e altre già recluse nel braccio tedesco del carcere di Regina Coeli e nelle celle di via Tasso. In totale 270.
Le 50 vittime mancanti (a cui vennero aggiunti altri dieci nomi per la morte di un ferito) furono richieste alla polizia italiana il cui elenco, compilato dal famigerato torturatore Pietro Koch e dal questore di Roma Pietro Caruso, comprendeva diversi militari e militanti della Resistenza. Tra le vittime anche nove sardi di cui conosciamo le biografie grazie ai libri di Martino Contu, storico di Villacidro, che da vent’anni scava nei documenti sulla strage. A breve uscirà il primo di una serie di volumi del “Dizionario” con le biografie di tutti i 335 morti. Un imponente lavoro che Contu, insieme ad altri ricercatori, sta portando avanti sulla base dell’archivio del prof. Attilio Ascarelli, il medico legale che esumò e identificò le salme dei martiri ardeatini.
Oggi si discute ancora se si sarebbe potuto evitare l’attentato scongiurando di conseguenza la rappresaglia. I giudici in diversi processi intentati dai familiari hanno prosciolto i gappisti sostenendo che si trattava pur sempre di un atto di guerra. Le sentenze sono una cosa, le scelte morali e politiche un’altra. Non è detto che le une o le altre coincidano con la verità storica.
Una cosa però è certa. Nell’Italia occupata, i nazisti compirono numerose stragi, anche senza essere stati oggetto di preliminari attacchi partigiani. La mattina del 16 ottobre del 1943 le SS rastrellarono dal ghetto di Roma oltre mille ebrei. Due giorni dopo furono deportati ad Auschwitz dove perirono quasi tutti. Cosa avevano fatto contro il Reich? Niente.
Chi oggi riporta il discorso sulle responsabilità dei partigiani viene tacciato di revisionismo. Ma su questo punto la maggior parte degli storici condivide l’opinione del prof. Ascarelli il quale, nel primo anniversario del massacro, disse: «Non si può parlare di rappresaglia di guerra perché l’attentato del 23 marzo ne fu il pretesto non la causa. L’eccidio fu freddamente disposto e premeditato da comandi responsabili, si abbatté su individui estranei ai fatti antecedenti, tutti innocenti. Fu un sacrificio di vittime, non l’esecuzione di ostaggi».