L’Unione Europea c’è e se esiste una reale volontà di mediazione tra le parti l’azione politica di Bruxelles può arrivare a risultati positivi. Lo dimostra l’accordo in extremis raggiunto tra i governi di Pristina e Belgrado grazie all’iniziativa dell’Alto Rappresentante Ue per gli affari esteri, Josep Borrell. A pochi giorni dall’introduzione del divieto per i serbi del Kosovo di utilizzare documenti emessi dalle istituzioni di Belgrado (previsto per il primo di settembre), Borrell ha annunciato che l’intesa è stata trovata. I serbi hanno accettato di abolire i documenti di ingresso/uscita per i titolari di carta d’identità del Kosovo e il Kosovo di non introdurli per i titolari di carta d’identità serbi. Una soluzione salomonica (ma non scontata) che almeno per ora scongiura il pericolo di nuovi scontri ai confini e che tiene aperto il dialogo verso la normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi. Il provvedimento era stato rinviato di un mese a fine luglio in seguito a disordini e proteste che si temeva potessero ripetersi in questi giorni tanto che la Nato ha subito rafforzato il Kfor, il contingente internazionale di pace che conta 3800 uomini, tra cui 850 italiani con un corpo di specialisti dei carabinieri.
Ma la situazione resta in bilico perché manca ancora l’accordo sulle targhe automobilistiche che obbliga, entro fine ottobre, la popolazione serba del Kosovo a sostituire le proprie rilasciate da istituzioni serbe con quelle kosovare che hanno il simbolo RKS (Repubblica del Kosovo). Cosa questa che Belgrado non accetta non riconoscendo l’indipendenza e la sovranità statale del Kosovo, considerato ancora una provincia meridionale della Serbia a maggioranza albanese.
I Balcani sono una ferita sempre aperta dell’Europa. Dopo oltre vent’anni dalla fine della guerra nell’ex Jugoslavia con periodica apparizione si riaccendono qui e là pericolosi focolai ai confini tra le ex repubbliche federali. Negli ultimi mesi l’allarme ha suonato insistente tra la Serbia e il Kosovo, che dal 2008 ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza. Belgrado è appoggiata da Mosca e Pechino, Pristina dagli Stati Uniti e dalla maggior parte dei Paesi occidentali (nell’Ue sono 22 su 27). Ogni pretesto è buono per scatenare disordini tra l’etnia serba che conta circa 50 mila abitanti e i kossovari del nord. L’ultima miccia si è accesa appunto lo scorso luglio quando il governo di Pristina ha emanato il divieto per l’uso di documenti di identità e di targhe serbe in Kosovo. Sono scoppiati gravi incidenti dopo che i manifestanti di etnia serba avevano bloccato due valichi di frontiera.
L’incendio è stato spento in tempo, ma può riprendere a breve in ogni momento se le parti – come auspica l’Ue – non troveranno un accordo definitivo sulle questioni di confine e di riconoscimento reciproco tra i due Paesi che si sono combattuti aspramente nel 1998-1999. Sinora gli incontri tra il presidente serbo Aleksandar Vučić, leader del partito progressista e il primo ministro kosovaro, l’ultranazionalista Albin Kurti, si sono sempre conclusi senza risultati nonostante gli sforzi diplomatici di Borrell.
La mediazione dell’Ue, come visto, è fondamentale perché non possiamo permetterci un’altra guerra nel cuore del continente con conseguenze devastanti per i due Paesi, ma anche per l’Europa che già deve fronteggiare il conflitto in Ucraina. Tra gli analisti di politica estera c’è chi vede stretti legami tra le recenti tensioni nei Balcani e l’offensiva di Putin che appoggia il governo di Belgrado.
Ai vertici dell’Unione si teme che la Russia giochi a destabilizzare i Balcani e quindi a spostare almeno un po’ l’attenzione dall’Ucraina. Alzando la posta sul tavolo, i funzionari russi hanno recentemente iniziato a sostenere l’istituzione di una base militare in Serbia, che è circondata quasi interamente dai Paesi membri della Nato. La situazione dei Balcani resta più che mai instabile in un momento tanto complesso per l’Europa e alle porte dell’Italia. La “guerra delle targhe” non è un episodio che, così raccontato, possa passare per una marginale conflittualità regionalistica. Altri focolai covano in Montenegro, nella Macedonia del Nord e nelle aree abitate da minoranze albanesi.