C’è un muro oltre il quale non vogliamo guardare e neppure sapere cosa ci sia dietro. Un muro che delimita la nostra “comfort zone”, l’ambiente e ciò che ci dà sicurezza, protegge noi e la nostra famiglia, rassicura il presente ed è presupposto vitale per il futuro. Ci interessa solo questa e facciamo di tutto per difenderla. Anche e soprattutto se oltre quel muro ci possa essere l’inferno, ma che se ignoriamo o facciamo finta che non esista fa sì che per noi l’unica realtà sia quella che viviamo nella bolla della nostra zona di interesse. Ed è proprio “The zone of interest”, titolo del film del britannico Jonathan Glazer, il tema centrale di un’opera che nel raccontare una faccia dell’Olocausto mostra un potente esempio della “banalità del male”. Come affermò Hannah Arendt seguendo il processo di Gerusalemme (1961) al gerarca nazista Adolf Eichmann sotto accusa per lo sterminio pianificato degli ebrei. La tesi della filosofa tedesca-americana sul cinico burocrate della Shoah è diventata un paradigma per ogni genocidio dell’epoca moderna. Ma dove c’è un criminale assoluto c’è anche un intero popolo che lo segue, lo appoggia, o semplicemente è silente testimone. Perciò non meno responsabile di chi contribuisce direttamente ai suoi misfatti. Se non colpevole, consapevole di ciò che accade attorno a lui.
Un tema già affrontato dallo storico americano Daniel J. Goldhagen nel celebre saggio “I volonterosi carnefici di Hitler”, che a metà degli anni Novanta aveva innescato un vasto dibattito. Attuale ancora oggi, seppure la Germania ha saputo fare i conti col passato nazista come nessun altro Paese europeo.
Goldhagen si chiedeva come il popolo tedesco, una delle grandi nazioni della civile Europa, avesse compiuto il più mostruoso dei genocidi. Sulla base dei suoi studi ha dimostrato che i responsabili dell’Olocausto non furono solo le SS o i membri del partito nazista, ma i tedeschi di ogni estrazione sociale, uomini e donne comuni che aggredirono e assassinarono gli ebrei per convinzione ideologica e per libera scelta. Proprio come Rudolf Hoss, il comandante del lager di Auschwitz, protagonista con la sua famiglia del film di Glazer. Candidato agli Oscar e ampiamente recensito anche nel nostro giornale con l’acuta recensione di Giovanni Scanu, è un lavoro straordinario e inedito per come ha saputo parlare dell’Olocausto senza mostrare neppure un’immagine di uccisioni e morti.
Mentre oltre il muro Hoss procedeva allo sterminio degli ebrei, nella bella villa conduceva una vita bucolica e pacifica. Capiamo il freddo militare, ma come poteva la moglie ignorare e nascondere ai figli il fumo che saliva dai forni crematori? La stessa domanda che da due anni ci poniamo di fronte alla guerra scatenata da Putin che sta distruggendo l’Ucraina e minando il futuro di pace dell’Europa con il consenso del popolo intero, secondo quanto ci raccontano i media russi e la propaganda del regime.
Glazer ripropone un tema su come possano accadere guerre e stermini di massa in qualsiasi situazione in apparenza normale, nella civile Europa, quanto in Medio Oriente, nei Paesi dominati dal fondamentalismo islamico o dagli odii tribali. Tutto può accadere intorno, anche migliaia di morti per bombardamenti o fame, basta sollevare un muro della propria zona di interesse e lasciare agli altri il compito sporco delle armi.
La riflessione del film porta alla tragica attualità delle guerre in Ucraina e della Striscia di Gaza, oltre alle decine di conflitti sparsi per il globo che Papa Francesco cita ad ogni “Angelus” domenicale. Non entriamo nel merito, ma pensiamo ai confini della nostra zona di interesse oltre la quale preferiamo o non vogliamo vedere perché riguarda altri e non noi. Il lettore si darà la sua risposta, ognuno sa dove innalzare il proprio muro. Ben consapevole tuttavia che oggi ogni muro può essere superato dalle immagini che ci arrivano dai droni e diffuse sui social, travalicando il silenzio dell’ufficialità, le verità nascoste o stravolte dalla narrazione che ciascun attore di queste guerre vuole raccontare e raccontarsi.