Per noi giovani occidentali degli anni 70/80 il Muro di Berlino rappresentava il simbolo della guerra fredda, la reale barriera tra due mondi diversi della stessa Europa, il confine tra le libertà della democrazia e le costrizioni del comunismo. Non a caso il muro, che divideva la città tedesca rinchiudendo i cittadini dell’ovest in una enclave nel cuore della Ddr, era l’estremo baluardo della cosiddetta “cortina di ferro” che separava i due blocchi opposti.
Viaggiare a est non era semplice, per i nostri coetanei dell’altra parte era quasi impossibile. A noi chiedevano visti, permessi, pagamenti in dollari. A loro complesse formalità di invito, altri pagamenti (in dollari che ufficialmente non si potevano neppure detenere) e garanzie di ogni genere perché rientrassero a casa senza tentazioni di restare all’estero. Così pochi dell’est potevano fare i turisti oltre cortina, per lo più si muovevano per eventi sportivi, culturali e politici. Dal grigiore dei loro Paesi ai colori sfavillanti delle città occidentali, il salto era enorme e lo choc poteva essere fortissimo.
La caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre di trent’anni fa, oltre a segnare la fine dei due blocchi e della “guerra fredda”, fu il segnale che da quel giorno si poteva entrare e uscire dai propri confini senza più limiti e paure. La libertà di movimento fu la conquista più immediata e tangibile per le popolazioni dell’est. A Berlino e in Germania si poterono ricongiungere intere famiglie separate per 28 anni da quella barriera di mattoni, torri di guardia, fossati e filo spinato.
Certo, agli inizi del mitico1989 nessuno poteva immaginare che quel mondo si sarebbe dissolto nel volgere di un anno. Mentre la vicina Polonia si preparava a sfrattare i comunisti dopo la vittoria politica del sindacato Solidarnosc guidato da Lech Walesa, l’ottuso e fanatico leader della Ddr, Erich Honecker, non si era accorto che anche la sua Germania orientale aveva i giorni contati. Tutto intorno si sfaldava, Gorbaciov al culmine della “perestrojka” già vacillava, e Honecker annunciava che il Muro sarebbe durato per altri cento anni. Cosa accadde è nei libri di storia, oltre che nelle cronache di quei mirabolanti mesi. La spallata al Muro tuttavia non venne da Bonn, ma da Varsavia e soprattutto da Budapest. Ad agosto una massa dilagante di tedeschi dell’est cominciò a passare in Austria attraverso l’Ungheria, già in fase postcomunista, che favorì quella fuga in breve trasformatasi in un esodo biblico. Una vera catarsi storica. L’Ungheria, umiliata nel 1956 con i carri armati dai russi che non tolleravano fuoriuscite dal blocco, si trovò ad essere crocevia e veicolo dell’inarrestabile emorragia destinata a svuotare ed estinguere il comunismo. L’apertura delle dighe danubiane – evidenzia Enzo Bettiza nel suo celebre libro dedicato al 1989 – si propagherà come una metastasi galoppante per il corpo di un impero sfinito. L’Urss di Gorbaciov durerà ancora due anni, ma la sua fine era stata già segnata col crollo del Muro.
Trent’anni sono in periodo piuttosto lungo. I ventenni di oggi poco o niente sanno di quei tempi, dell’impero sovietico e della guerra fredda. L’anniversario è un buon pretesto per parlarne e per riflettere sui cambi epocali che nel frattempo sono avvenuti. È stato giusto celebrare allora gli eventi in Europa centrale e, in seguito, nelle repubbliche Baltiche e nell’ex Unione Sovietica quali grande trionfo della libertà, della democrazia e dell’Occidente. L’errore – come scrive il politologo inglese Timothy Garton Ash – è stato credere che fosse la norma, la direzione in cui si muove la Storia. Dopo un ventennio proprio in quei Paesi che hanno affossato il comunismo sono andati al potere governi nazionalisti e populisti che oggi – attorno al Gruppo di Visegrad – si attestano in posizione antieuropeiste. Sono sostenuti dal consenso popolare e da forti maggioranze in nome di una “democrazia illiberale” (inedita formula che ha trasformato un ossimoro in una nuova concezione politica). Questi governi stanno rapidamente cancellando le conquiste interne ottenute con le libertà del dopo Muro di Berlino, contrapponendosi ad una visione europeista democratica. Il presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk aveva lanciato un appello ai suoi connazionali affinché si opponessero alla politica nazional populista di Diritto e Giustizia, ispirandosi agli ideali di Solidarnosc degli anni Ottanta. Ma alle elezioni di metà ottobre il partito Pis di Jaroslaw Kaczynski ha di nuovo trionfato. Così come mantengono altissimi i consensi in Ungheria il sovranista Viktor Orban e, nella Repubblica Ceca, il presidente filorusso e xenofodo Milos Zeman con l’appoggio del premier Andrej Babis, il magnate populista detto “Babisconi”.
Non è certo questa l’eredità di chi ha lottato per abbattere la cortina di ferro, ma l’Ue di oggi deve agire politicamente e guardare con molta preoccupazione a questi governi, prima che un altro muro possa dividere l’Europa.