L’Italia e l’Europa stanno cercando di trovare una nuova politica per la Libia, la porta dell’Africa più vicina alle nostre coste. Per regolare o fermare il flusso dei migranti si parla di rafforzare la Guardia costiera libica, i controlli a terra e soprattutto di puntare sull’ampliamento degli hotspot ai confini con gli altri Paesi maghrebini. Si tratta dei centri di identificazione dove convogliare la gran parte dei profughi in attesa di decidere la sorte di ciascuno: ammissione verso l’Europa oppure respingimento per rispedirli nei luoghi da cui sono fuggiti. Si pensa così di incrementare l’aiuto ai libici con imponenti finanziamenti europei per gestire quello che sono in realtà gli hotspot, cioè immensi campi profughi destinati a diventare tendopoli permanenti per decine di migliaia di disgraziati che, certo, non vogliono riattraversare il deserto per ritrovarsi in paesi in guerra o alla fame.
L’attuale situazione è davvero tragica perché, da qualunque parte si voglia guardare, non c’è una politica che possa portare a una soluzione del fenomeno migratorio dall’Africa nei prossimi anni. I dati diffusi nei giorni scorsi dicono che negli ultimi 5 mesi i migranti sono diminuiti in Italia dell’82 per cento rispetto al 2017, mentre in Spagna sono raddoppiati e i Grecia sono saliti del 40 per cento. Questo perché si è socchiusa la porta della Libia e i migranti puntano alla direttrice Senegal-Mauritania-Marocco piuttosto che alla più pericolosa via attraverso Niger, Ciad e l’inferno libico.
Ma lo stop dei profughi dalla Libia non deve far gridare vittoria né a Salvini e neppure a chi vuole attribuire la paternità del successo all’ex ministro Minniti perché tale non è. In realtà siamo di fronte a una bomba ad orologeria il cui timer è nelle mani dei capi libici che utilizzano il flusso migratorio a piacimento. E’ un business eccezionale che consente a questi boss (politici, militari, leader di clan tribali) di lucrare da tutte le parti: dall’Ue, dall’Italia, dal Governo ufficiale di Tripoli e dagli stessi migranti che devono pagare per partire o per non esser cacciati dai campi profughi nel deserto.
Insomma, costoro gestiscono i traffici aprendo il rubinetto secondo il momento. Bloccano o limitano gli imbarchi per far vedere che stanno lavorando al meglio così da giustificare i lauti aiuti europei e poi, ogni tanto, fanno passare qualche centinaia di profughi affidandoli a scafisti “amici” che pagano la tangente, mentre contrastano gli altri. Inoltre dettano legge nei campi profughi.
Sicuramente i nostri servizi segreti erano e sono a conoscenza di tutto e quindi è presumibile anche il governo. Ora l’inquietante verità diventa pubblica dopo la recente diffusione del rapporto dell’Onu in cui si annuncia un pacchetto di sanzioni contro alcuni dei principali referenti dei “network” criminali dediti al traffico di migranti in Libia. Il Consiglio di sicurezza ha individuato, con nomi e ruoli, sei personaggi accusati di guidare una vasta rete di traffici i cui terminali sono situati sulla costa tripolina. Questi boss alimentano un vero mercato dei migranti (molti venduti all’asta come schiavi) e manovrano una rete di centri di detenzione ibrida, in parte sotto il controllo formale delle autorità, ma in realtà gestita con larghissima autonomia dai loro consorzi criminali.
Il dato più rilevante che emerge dai profili sanzionati dall’Onu è la profonda commistione tra i loro network criminali, le milizie fedeli al Governo di Unità Nazionale (GUN) guidato da Fayez al-Serraj appoggiato dall’Ue, e parte di questi stessi ambienti istituzionali. A tal proposito è esemplare il caso di Abd al-Rahman al-Milad, il capo della Guardia Costiera di Zawiya, indicato come corresponsabile dei traffici. In questo contesto è difficile pensare a una nuova strategia. Di certo – come scrive il britannico Daniel Trilling su “Internazionale” – non ci saranno soluzioni a questa crisi, se per soluzione si intende una decisione politica in grado di far sparire i profughi.