Era marzo del 1994, l’inizio di una nuova era per l’Italia che stava per voltare pagina liquidando la “prima repubblica” a matrice democristiana per entrare nella cosiddetta “seconda” con l’ingresso in politica di Berlusconi e la nascita di Forza Italia. Tangentopoli, la fine delle ideologie, la sinistra in grave crisi di identità, l’Europa alle prese con la guerra nell’ex Jugoslavia, l’economia che affondava, l’Italia che stava cambiando pelle ancora una volta. La battaglia politica si faceva molto anche sui giornali, in quegli anni favoriti da un mercato editoriale florido per l’alto numero delle vendite e lo sviluppo della pubblicità. Il grande Indro Montanelli, sebbene avesse 85 anni, era sempre sulla breccia e attivo come non mai. Così, in contrasto con Berlusconi, decise di lanciarsi in una nuova avventura e di aprire il suo giornale. Alla vigilia del primo numero la direzione dell’Unione decise di inviare a Milano una delle sue firme di punta, Maria Paola Masala, prima donna a diventare giornalista professionista in Sardegna. In proposito si veda il post su questo sito le-prime-donne-giornaliste.
Montanelli aveva un rapporto speciale con la Sardegna: ci aveva vissuto da ragazzo con la famiglia (il padre era preside a Nuoro) e in seguito non aveva mai allentato i rapporti, tornandoci spesso per lavoro o diletto. Nel 1963 nell’ambito dell’ “Inchiesta in Italia”, svolta dal Corriere della Sera, aveva realizzato un grande reportage di sette articoli facendo un’approfondita radiografia dell’isola negli anni a cavallo del boom economico e del Piano di Rinascita. Così accettò di buon grado di accogliere l’inviata del primo quotidiano della Sardegna.
Il ricordo di Maria Paola Masala
«Ho lontani e piacevoli ricordi di quella trasferta a Milano. Ci andai sicuramente con mio figlio Francesco, che allora aveva sette anni e mezzo. Ricordo che prima di incontrare Montanelli, alla redazione di via Dante, chiacchierai un po’ con Federico Orlando, un vero gentiluomo, che mi accolse con grande affabilità. Poi andammo da Montanelli. Io ne avevo un timore reverenziale, ma lui mi mise subito a mio agio. Parlò a ruota libera, non mi disse mai questo non dirlo, come spesso fanno gli intervistati ( e soprattutto i colleghi, sanamente diffidenti nei confronti del giornalisti). Sicuramente il fatto che io arrivassi dalla Sardegna fu un punto a mio favore. Chiacchierammo a lungo e poi scese giù con me. Salutò mia cognata che mi aspettava giù e fece un buffetto a Francesco».
La Voce, una scommessa a 85 anni
L’idea di fondare «La Voce» venne a Indro Montanelli quando lasciò la direzione de «Il Giornale» l’11 gennaio 1994, dopo quasi vent’anni di direzione ininterrotta. Montanelli lamentava le pesanti ingerenze, e attacchi personali, subìte nell’ultimo anno, addebitandoli direttamente a Silvio Berlusconi, suo editore di fatto, che si preparava a presentarsi ufficialmente alle elezioni politiche del marzo 1994 con un partito personale (Forza Italia). Berlusconi auspicava infatti da parte del «Giornale» una netta presa di posizione in favore della sua parte politica, come il resto del suo colosso editoriale-televisivo, la Fininvest e la Mondadori. Tali pressioni furono subito respinte dall’anziano direttore, che constatò come fossero venute meno le condizioni di libertà e d’indipendenza imprescindibili per poter continuare la conduzione del quotidiano. Così Montanelli considerò conclusa la sua esperienza al «Giornale». All’età di ottantacinque anni ricominciò con una nuova testata, ispirata nel nome all’omonima rivista fondata da Giuseppe Prezzolini nel 1908. Il primo numero uscì il 22 marzo 1994.
Tredici mesi, poi la fine
«La Voce», che aveva sede a Milano in via Dante 12, si caratterizzò per i molti articoli d’opinione, i fotomontaggi realizzati da Vittorio Corona, la prima pagina a copertina (molto diversa da quella del «Giornale»), le numerose rubriche, la sezione cultura particolarmente curata, chiamata Il Caffè, e le pagine quasi prive di pubblicità. Il successo iniziale fu grande, ma dopo pochi mesi l’effetto novità si esaurì (la diffusione si era attestata attorno alle 40 mila copie), facendo andare in sofferenza la gestione economica. Nell’aprile 1995, tredici mesi dopo il primo numero, a causa di vari motivi (costi troppo alti, calo delle vendite in edicola, fuga dei pochi azionisti e inserzionisti, ecc.) la testata dovette chiudere. Montanelli tornò al Corriere della Sera per curare una sua rubrica.
Ed ecco l’articolo di Maria Paola Masala, che L’Unione pubblicò a tutta pagina giovedì 3 marzo, per presentare il nuovo giornale ai lettori sardi. Il Pdf dell’articolo: INDRO MONTANELLI ’94
La Voce della ragione
Fa parte anche lui di quella sparuta “minoranza virtuosa” che ha contribuito a dare lo scossone finale a un regime durato cinquant’anni, ma guai a chiamarlo padre della patria. È un ruolo che gli sta stretto, come la poltrona di senatore a vita e come quella (recente e apprezzatissima) di direttore del Corriere della Sera, al fianco di Paolo Mieli. Gli occhi azzurri del vecchio ragazzo anarchico mandano bagliori quando gli dicono che figura tra i padri nobili del progressismo. Guai a chiedergli se per caso non stia virando un po’ a sinistra. «Vent’anni fa io ero il fascista, il golpista, l’agente della Cia. Arrivarono a scrivermi perfino questo. Oggi la tecnica si è capovolta. Oggi non mi demonizzano, mi esaltano. Mi esaltano come uno dei nuovi padri della sinistra per creare una rottura tra me e il mio pubblico. Questo è il giuoco che fanno, coscientemente o incoscientemente, non lo so, ma io ho subìto queste due adulterazioni. Eppure pochi giorni fa ho scritto un fondo sul Corriere, dicendo che io sono un uomo di destra che non si riconosce nei mammozzi… che non si riconosce, dicevo, nelle forze che si proclamano di destra. E che di destra non hanno assolutamente nulla. Figuriamoci un Giolitti o un Einaudi di fronte a questi qua. Non li riconoscerebbero come fratelli o figli. La loro destra era un’altra cosa. E anch’ io appartengo a un’altra destra, una destra forse utopica. Ma anche la sinistra ha un modello ideale».
A ottantacinque anni (li compirà il 22 aprile) Indro Montanelli ha avuto il coraggio di fuggire in avanti, nel momento in cui il “Giornale di Montanelli” diventava il Giornale di Berlusconi. E di fondare un nuovo giornale, la Voce. Ma a tutto c’è un limite. Il suo si chiama computer. La redazione, quattro piani in un palazzo di via Dante, al centro di Milano, ne ha uno in ogni stanza: i 77 redattori stanno imparando febbrilmente a usarlo, per essere in edicola il 15 marzo, ma lui non ci sta. E si prepara a firmare il primo editoriale con la sua Olivetti lettera 22. La stessa con la quale ha scritto le sue dimissioni dal giornale che aveva fondato vent’anni fa, per ribellarsi «al regime corrotto», e che ora non gli appartiene più. Gli appartengono, poiché lo hanno seguito con entusiasmo, i 47 colleghi che faranno la Voce, insieme con un’altra trentina di «nuovi». «Gli altri spero di ospitarli quando sarà possibile. Il mio intento è di ricostituire il mio vecchio giornale. Spero di riuscire a farlo».
Seduto su una sedia nella grande stanza del condirettore Federico Orlando, quasi disteso per dar spazio alle lunghe gambe da trampoliere, Montanelli parla tenendo le mani in tasca. Alle sue spalle, la testata del nuovo giornale, con la elle dell’articolo minuscola, e sotto una sorta di lancia stilizzata (lui avrebbe gradito un fioretto, dicono) e la scritta “Il giornale di Indro Montanelli”.
Ai suoi collaboratori più stretti ha lasciato l’incarico di mostrare il progetto grafico di questo quotidiano «da guardare oltre che da leggere», di elencare le cifre (le 350 mila copie del primo numero, le 130 mila su cui la Voce conta di assestarsi nei prossimi tre anni) e i nomi dei collaboratori più prestigiosi. Da Ricossa a Segre, da Mazzucca a Revel, a Nolte, a Berselli, Caprara, Rubbia, Visalberghi, Savona, Mazzanti. E Bearzot per lo sport, Everardo Dalla Noce, prestato dal mestiere del calcio all’hobby dell’economia.
Con Montanelli ci saranno quasi tutti i vecchi collaboratori del “Giornale”. Tutti meno Antonio Martino. «E si capisce», interviene lui. «è un consulente molto ben remunerato, e Berlusconi, che già distribuisce premi, pare gli abbia promesso il Ministero del Tesoro…».
Ha avuto un gran coraggio a fare la Voce.
«È follia, non coraggio, però siamo stati obbligati. Basta vedere che cosa è oggi Il Giornale. Non voglio dire niente contro, se lo vogliono così se lo tengano. Certo io non potevo fare un foglio d’ordine di partito. Di qualsiasi partito, sia chiaro. La Voce nasce senza padroni, nasce senza padrini, nasce senza patroni. L’operazione finanziaria che presiede a questo giornale è un’operazione audace che può battere la strada dell’azionariato pubblico, con migliaia di sottoscrittori, tra cui alcuni grossi, ma nessuno più grosso del 4 per cento del capitale. Sappiamo benissimo poi che sulla lunga distanza qualcuno fa incetta delle azioni… Noi saremo molto vigili per impedire che accada. Ma l’importante è che questa sottoscrizione sia aperta a tutti, sia aperta a noi giornalisti, che ne abbiamo nei limiti delle nostre possibilità già approfittato, sia aperta ai lettori che ne stanno approfittando, molti, moltissimi. Il fatto che a questa operazione abbia voluto partecipare un grande giornale inglese, l’Economist, che è uscito dal suo splendido isolamento solo per noi, è gratificante. Vuol dire che l’operazione attrae; magari falliremo, ma è un esperimento che, evidentemente, piace ai giornalisti. Piace pensare a giornali senza padroni. Ecco, io vorrei ripercorrere la strada del mio vecchio amico e maestro Prezzolini».
Il nuovo “Giornale di Montanelli” sarà simile al precedente?
«I contenuti saranno quelli, si capisce. Noi non abbiamo niente di cui pentirci. Cambierà la veste grafica, che sarà elegante e leggera. Vent’anni fa non ci ponemmo il problema della forma, stavolta gli abbiamo dato importanza e abbiamo trovato un collega giornalista molto bravo nella grafica, Vittorio Corona, il quale ha dettato a questo giornale un modello a cui speriamo di riuscire a restare fedeli. Voi sapete che i grafici sono un po’ i nemici storici dei giornalisti perché creano delle gabbie, e i giornalisti stanno male in gabbia…».
Ci sarà un congedo dal Corriere della Sera?
«No. Io devo molta gratitudine al Corriere, che non solo mi ha invitato a scrivere gli articoli, ma mi ha offerto la poltrona di direttore. E a farlo è stato proprio Mieli. Un episodio unico nella storia del giornalismo. Forse sarebbe stata la soluzione più comoda per me, mi mettevano in una nicchia, il santone, il giornale lo faceva Mieli e io ricevevo gli omaggi quotidiani della mia vecchia redazione. Ma ho dovuto accettare questa follia a causa di questi ragazzacci qua. Mi sentivo in obbligo con loro, non potevo lasciarli lì».
L’anagramma del suo nome è “in mondo tranelli”. Ne ha evitato molti nella sua vita?
«No, sono cascato in tutti quelli che mi hanno teso. È facilissimo per me cadere in un tranello. L’esperienza non mi ha insegnato nulla».
Come sarà il primo editoriale?
«Non lo so. So che sarà molto imbarazzante dare consigli elettorali. La destra è quella che è, il centro sta franando. Quanto alla sinistra, è fuori dai nostri orizzonti, e non per le ragioni che qualche imbecille adduce, ricordando Stalin, la Siberia, Praga, Budapest, che fanno parte dell’archeologia. Non mi piace il programma della sinistra, che non può non essere statalista e assistenzialista. Senza disturbare Stalin, io sono contro».
Si turerà il naso, prima di votare?
«No, adesso basta col naso turato. Devo dire però che se si ritornasse alle condizioni del ’76 ripeterei l’invito ai miei lettori di votare Dc. Sapevo bene che c’era puzza di marcio, ma allora noi, alla scelta tra il ladro e il boia scegliemmo il ladro. Certo, non potevo immaginare fino a che punto sarebbe arrivato il marciume».
È vero che Michele Serra scriverà una volta alla settimana per lei una lettera contro la Voce?
«Io gliel’ho chiesto, lui ci sta pensando. Spero che lo faccia. Mi diverte, lo stimo molto».
Allora è vero…
«Allora è vero, sono diventato di sinistra! Del resto, sono abituato a questi equivoci. Era equivoca anche la mia amicizia con Fortebraccio. Il quale un giorno, redarguito dai suoi, scrisse sull’Unità un trafiletto che diceva: “Ho dato le disposizioni per il mio funerale. Voglio essere seppellito con questa lapide: Qui giace Mario Melloni, alias Fortebraccio. Il quale amò Indro Montanelli e non smise mai di vergognarsene”».
E lei che fece?
«Scrissi un Controcorrente: “Anch’io ho dato le mie disposizioni. Voglio essere seppellito accanto a Fortebraccio con questa lapide: qui giace Indro Montanelli, vedi lapide accanto”. L’indomani mi chiamò divertito e mi diede appuntamento per la notte. “Vediamoci al Castello, avrò barba e baffi, fa’ altrettanto”. Non condivido nessuna delle idee di Serra, ma è intelligente e spiritoso. L’Italia purtroppo è un paese di imbecilli, non sa cosa sia la vera tolleranza».
Si sta divertendo in tv con Beniamino Placido?
«Mi diverto poco. Facevo molto affidamento sulla sua grande esperienza in fatto di televisione. Invece lui è imbarazzatissimo, davanti alla telecamera. Fa televisione scritta».
Lei ha fatto a Nuoro le ultime due classi elementari e le prime tre del Ginnasio Asproni. Che ricordo ha di quei cinque anni?
«Bellissimo, sono sempre rimasto attaccato alla Sardegna. La Sardegna di ottant’anni fa era il Texas, la libertà assoluta. I banditi allora non toccavano i bambini. Io allora avevo la passione dei banditi. Sono scappato tre volte per andare a raggiungerli sull’Ortobene».
Ecco perché ama Mesina.
«È un testone. Gli hanno teso una trappola ma lui c’è cascato come un allocco, glielo avevo detto».
Qual è il difetto che sopporta meno negli altri?
«Il tradimento. Detesto i voltagabbana».
E lei, che difetti ha?
«Ne ho tanti, forse il fatto che mi stufo delle cose, e questo non è bene».
Se non facesse il giornalista?
«Morrei. Devo farlo. Un posto senatoriale non mi va bene».
Ecco perché è così giovane.
«Giovane con la lombaggine. Ma sa che questo giornale forse piacerà proprio ai giovani? Proprio io, che non li ho mai frequentati, che odio i giovanilismi, ho scoperto di essere diventato popolare. Forse perché non credono più alle ideologie e badano ai comportamenti. Il fatto che io abbia rinunciato al Senato a vita, al Corriere, gli piace. Gli piace che ami la lotta. E sa dove ho imparato che bisogna sempre accettare le sfide? A Nuoro. Da bambino ero già lunghissimo, ossuto, e di un anno più piccolo dei miei compagni. Mi picchiavano e mi rispettavano perché non scappavo. Finivo sempre in terra, gonfio e pesto».
Se si guarda indietro all’improvviso, che cosa vede?
«Momenti esaltanti ma anche drammatici che mi danno nostalgia. Anche i mesi che passai in carcere, nel ’43 e nel ’44. La galera forma, a me almeno è servita molto. Certo, Giovannino Guareschi ne uscì distrutto. Io quando vidi la cella sottoterra dove mi avevano sbattuto, credetti che sarei morto di claustrofobia. Mi adattai in tre giorni, e poi quando finii a San Vittore pensai di essere arrivato a Biarritz».
E a San Vittore incontrò Mike Bongiorno…
«I tedeschi lo avevano messo dentro perché era cittadino americano. Noi eravamo isolati, ma lui aveva solo sedici anni e non aveva fatto niente. Un ragazzo buonissimo e servizievole. Fu leale con me. Lo lasciavano libero di muoversi, così ci portava le sigarette, i bigliettini…Povero Mike…».
Lei si è innamorato molte volte in ottantacinque anni?
«Spessissimo, io sono un cottaiolo, e le donne seviziano i cottaioli. Siamo vittime ideali. L’amore mi manca, e anche la caccia. Ma non quella di oggi. Oggi sono killer, non cacciatori. A me piaceva cacciare coi cani nel bosco, prendere quattro o cinque capi, non di più. Sbagliavo difficilmente. Avevo cominciato a Nuoro. Facevo da cane a mio padre».
E sua madre? Ha avuto un peso determinante?
«No, ma è stata una grande madre, è morta a 96 anni, lucidissima. Era una creatura meravigliosa, in fondo avrebbe voluto che io non crescessi. Io non le ho dato molto, ero uno scorbutico che a 17 anni se ne andò di casa. Il mio grande rimorso è di averle dato poche soddisfazioni sul piano sentimentale. Ma perché stiamo parlando di mia madre?».
Maria Paola Masala