Uno dei problemi più difficili per il prossimo governo sarà la politica per i migranti. E chiunque verrà chiamato a decidere dovrà fare i conti con le diverse posizioni in Parlamento e a Bruxelles. Nessuno ha la ricetta risolutiva in tasca. Un nuovo “piano Marshall” per l’Africa – come invoca Berlusconi – , corridoi umanitari regolamentati in collaborazione con la Libia, oppure la linea dura dei respingimenti in massa. Qualsiasi scelta sarà temporanea e limitata geograficamente perché sembra impossibile trovare una posizione condivisa e soprattutto mettere in campo immense risorse di fondi e uomini per missioni umanitarie e militari con l’utopia di fermare l’esodo degli africani aiutandoli a casa loro.
Ma in verità è che noi europei non conosciamo il Continente nero, non distinguiamo i Paesi sulle mappe, ignoriamo i nomi delle capitali. Sappiamo solo quello che ci raccontano i media con le cronache di quotidiane tragedie dei naufragi e l’astratta conta delle vittime per le quali, proprio per il ripetersi del copione, l’opinione pubblica non si commuove più. Per la maggioranza degli italiani, i migranti sono quei giovani neri che camminano senza sosta nelle nostre città, trascorrono le giornate appollaiati sui muretti o raggruppati nei parcheggi. Sono le facce di quei ragazzi che con il cappello in mano presidiano ogni angolo dei semafori e ogni ingresso di supermercato. Volti anonimi che sembrano tutti uguali.
Non ci chiediamo chi sono, da dove vengono, cosa pensano e cosa sognano, perché una qualsiasi risposta ci porrebbe di fronte a inquietanti riflessioni. Bisognerebbe leggere i reportage di Ryszard Kapuscinski (1932-2007), il grande giornalista polacco che per trent’anni ha girato l’intera Africa muovendosi come gli africani, vivendo con loro e cercando di capire il loro modo di pensare: conoscerli per poterli raccontare. Il suo libro “Ebano” (Feltrinelli), uscito nel 2000, spiega come gli africani abbiano una diversa concezione del tempo e dello spazio. Il futuro non esiste, si vive alla giornata sempre in attesa di un “qualcosa” che arrivi all’improvviso per ricavarne l’unico pasto per il giorno. Leggendo Kapuscinski capiamo che per questi giovani qualsiasi cosa in Europa è pur sempre meglio della fame nei villaggi o nelle bidonville delle mostruose metropoli cresciute in seguito alle guerre civili e all’abbandono dell’interno. Per questo nessun intervento potrà bloccare i migranti.
Gli italiani (premettendo che non siamo un popolo di razzisti) sono divisi su come affrontare un fenomeno che non può essere più considerato un’emergenza, ma che rappresenterà una costante anche nei prossimi anni. Gli sbarchi sono diminuiti rispetto al fiume in piena del 2016, “appena” 180 mila nel 2017, ma nessuno sa cosa farne e cosa offrire a questa massa di disperati che, senza lavoro e una meta, bivaccano nelle strade, nei centri di accoglienza e affollano le carceri (la metà dei 60 mila detenuti è straniera). Non esiste una politica unitaria per affrontare un problema planetario. Su questo tema regna l’ipocrisia generale e l’ignoranza. Tutti in questi giorni ne parlano, vincitori e vinti del 4 marzo continuano ad affrontarsi nei dibattiti televisivi arroccati nelle loro posizioni preelettorali.
Ben pochi conoscono la realtà dell’Africa. Chi è al governo nei Paesi che andremo ad aiutare o con cui vorremmo stringere accordi? Chi gestirà i fondi? Come verranno spesi? Chi garantirà che miliardi di euro non finiranno nelle tasche di clan tribali e lobbies di affaristi al potere, non alimenteranno corruzione e differenze sociali?
Non esiste una politica condivisa in Italia, ma manca totalmente a livello internazionale, con i Paesi europei spaccati sulla gestione dei flussi (alcuni come Ungheria e Polonia non ne vogliono neppure sapere). Gli stessi Paesi nordafricani e mediorientali appaiono pronti a specularci chiedendo contropartite enormi per fermare i barconi e rinchiudere in infernali campi profughi decine di migliaia di disperati in attesa di rispedirli nelle regioni di origine.