Il mondo è una polveriera con tanti fuochi attorno. Ce ne accorgiamo guardando le breaking news dei tg che mostrano per qualche secondo immagini di conflitti, attentati e manifestazioni popolari represse con la violenza. Ma è tutto come se fosse un telefilm, basta cambiare canale per trovare altre storie e altro sangue. La conta quotidiana dei morti è un bilancio che lascia gli spettatori indifferenti, più interessati al meteo che all’ennesimo massacro in terra straniera. Non bastano i continui appelli di papa Francesco a destare le coscienze di un Paese concentrato sulle notizie interne, pensando che ciò che accade in Afghanistan o in Venezuela non possa riguardarci. In attesa del voto europeo di maggio è difficile capire la posizione dell’Italia nel contesto internazionale.
La cronaca estera dà spazio, in questi giorni, all’Algeria ad un passo dall’esplosione di una nuova “primavera araba”, con molti richiami al recente passato della Libia e dell’Egitto. L’ottuagenario presidente Abdelaziz Bouteflika, al potere dal 1999 e in sedia a rotella perché molto malato, non vuole cedere il comando ipotecando un quinto mandato alle prossime elezioni del 18 aprile. Come ben spiega Lorenzo Marinone, esperto del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.) per il Nord Africa, la sua ricandidatura è il frutto di uno stallo nelle consultazioni tra le diverse componenti del sistema di potere algerino, che tradizionalmente esprime per consenso il presidente.
Le attuali proteste popolari rappresentano una messa sotto accusa di tutta l’attuale classe dirigente, che vede accumunati nella gestione del potere sia le Forze Armate sia i partiti di governo Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) e Raggruppamento Nazionale Democratico (RND), mentre l’opposizione annuncia di non voler nominare un candidato alternativo. Secondo l’istituto Ce.S.I. diretto dal prof. Andrea Margelletti, non si intravede una soluzione politica allo stato attuale e questo fa pensare che le manifestazioni popolari continueranno.
L’Algeria, come la Libia, è sull’altra sponda del Mediterraneo, e da quelle coste partono i barchini che, trovando sbarrata la via per la Spagna, arrivano sino in Sardegna. Gli ultimi clandestini sbarcati nelle nostre spiagge provenivano da lì.
Ciò che sta accadendo ad Algeri, dunque, ci riguarda molto da vicino. E ci deve preoccupare. Non possiamo sottovalutare e defilarci in attesa degli eventi, come abbiamo fatto per la Libia nel periodo precedente la caduta di Gheddafi. Oggi conosciamo bene le drammatiche conseguenze.
Questa recente ondata di proteste – sottolinea il Ce.S.I. – ha connotati squisitamente politici che le precedenti manifestazioni di dissenso, centrate più su temi economici e sociali, non possedevano. Oltre al movente politico, le proteste iniziate a fine febbraio hanno anche una diffusione geografica vasta, considerando che hanno interessato, oltre ad Algeri, città della fascia costiera mediterranea come Orano e centri minori. Per questi motivi le recenti manifestazioni costituiscono un segnale che l’establishment algerino, tradizionalmente ingessato e incline all’immobilismo, non può permettersi di ignorare. L’eventuale proseguimento delle proteste, su larga scala e con ampia partecipazione popolare, potrebbe portare il governo ad agire già prima dell’appuntamento elettorale di aprile. In che modo? Per ora le manifestazioni si sono svolte pacificamente, sotto il controllo delle forze di polizia. Ma l’esperienza delle “primavere arabe” dovrebbe far riflettere senza escludere niente, neppure gli sviluppi più estremi. La prospettiva di un’esplosione di violenze con tutte le possibili conseguenze (tra cui una nuova ondata di migranti) deve allarmare la comunità europea.
Il futuro dell’Algeria, come è evidente, ci tocca molto da vicino mentre la nostra politica estera sembra latitante, districandosi tra continui scossoni in avanti e passi indietro.
Qual è la nostra strategia internazionale oggi e come sarà dopo le elezioni europee di maggio? Quale sarà il nostro ruolo all’’interno dell’Alleanza Atlantica nel prossimo futuro? Come vogliamo rapportarci nelle missioni di pace con i britannici in fase di Brexit, i francesi sempre più legati ad un asse militare filo-tedesco, gli americani che non vogliono più fare i guardiani del mondo e che ci chiedono di mettere più fondi per gli armamenti?
Il governo gialloverde si muove in ordine sparso, i due viceministri Salvini e Di Maio per conto loro e spesso in contraddizione, il premier Conte che corre nelle capitali per ricucire gli strappi, la titolare della Difesa Elisabetta Trenta che annuncia il ritiro dall’Afghanistan entro la fine dell’anno ad insaputa del collega degli Esteri Enzo Moavero, il Parlamento che non si esprime sulle grandi scelte di strategia internazionale.
Gli italiani possono stupirsi, ma sono in grado di decifrare i bizantinismi della politica nazionale. Non possiamo, però, chiedere a un europeo o ad un americano di capire le mosse imprevedibili dei nostri governanti.
Carlo Figari