Le immagini e le notizie che continuano ad arrivare da Minsk avvolgono il video della storia riportandoci ad un passato che sembrava sepolto dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Urss. Reporter stranieri espulsi, blocco di internet, bavaglio all’informazione, arresti di tutte le voci di opposizione. Un violento tentativo di oscurare e silenziare ciò che da un mese sta avvenendo in Bielorussia sotto gli occhi del mondo. Il dittatore-presidente Aleksandr Lukashenko, in evidente difficoltà, ha alzato i toni delle minacce e dell’azione repressiva, incassando l’appoggio di Putin che si riserva ogni possibile intervento della Russia di fronte a inesistenti ingerenze occidentali negli affari interni del Paese. Mentre l’Europa, con in testa il duo Macron-Merkel, si compatta chiedendo pesanti sanzioni e appellandosi a Putin perché non intervenga in alcun modo, la protesta da un mese non si ferma. Anzi, l’onda dei manifestanti cresce di giorno in giorno. Qui non sono in gioco ampie porzioni di territorio, come la Crimea per l’Ucraina, ma l’intero Paese che deve decidere sul suo futuro.
La Bielorussia è un déjà vu che si ripete con un copione già visto durante le rivoluzioni pacifiche in Polonia, Ungheria, Germania dell’Est, Cecoslovacchia, Bulgaria e Paesi Baltici nell’estate del 1989. Il popolo bielorusso, che dai primi di agosto subito dopo le elezioni-farsa presidenziali, ha iniziato a scendere nelle piazze della capitale Minsk e delle città minori non si arrende alla repressione della polizia e alle minacce del presidente Lukashenko. La folla sempre più imponente (domenica erano oltre centomila nel corteo) continua a manifestare, la protesta si è estesa a tutte le categorie coinvolgendo minatori e operai che rappresentavano lo zoccolo duro del consenso ormai perduto dell’ultimo dittatore di un Paese europeo.
Non sappiamo, nessun analista è in grado di prevedere i prossimi sviluppi degli eventi: la storia degli anni Ottanta ha visto i più imprevedibili epiloghi dei regimi comunisti del defunto impero sovietico. Chi ordinò di aprire le frontiere come a Berlino Est, chi organizzò la “tavola rotonda” per discutere il passaggio di potere tra il generale Jaruzelski e i leader di Solidarnosc, chi invece come il “conducator” Ceausescu in Romania tentò una disperata reazione.
Quattro considerazioni di allora valgono ancora oggi per la Bielorussia. 1: il ruolo fondamentale del Cremlino che, contrariamente al passato, quando aveva inviato i carri armati a Budapest nel 1956 e a Varsavia nel 1968, lasciò decidere il proprio destino a ciascun Paese satellite del blocco sovietico; 2: la forza della folla che dopo aver conquistato pacificamente le piazze costrinse alle dimissioni i vecchi leader comunisti; 3: gli stessi dirigenti che, a parte qualche eccezione, passarono il potere ai nascenti partiti democratici; 4: infine il comportamento dei generali e dell’esercito che si schierarono con i manifestanti o rimasero neutrali.
Oggi la Bielorussia ha imboccato una strada senza ritorno. La gente, nonostante la violenta repressione, non teme più di scendere in piazza. L’opposizione bielorussa ha adottato una linea ferma e unitaria di protesta che si basa su essere totalmente pacifica e si proietta nel lungo periodo, con l’obiettivo di andare avanti fino alla vittoria nonostante le minacce crescenti dell’uso delle armi, migliaia di arresti, le torture e le sparizioni dei dissidenti. Gli oppositori che sostengono la candidata Sviatlana Tsikhanouskaja (fuggita in Lituania all’indomani del voto) chiedono tre cose: elezioni libere, fine della repressione e ripristino della costituzione democratica.
ll vero problema è che la causa democratica si scontra con una realtà che finisce per isolare i manifestanti. Prima di tutto c’è il ritorno di quelle “zone di influenza” che la fine della “guerra fredda” sembrava aver cancellato. Putin si è impegnato (con successo) a ricreare uno “spazio vitale” di influenza attorno alla Russia dimostrando con la forza – in Georgia nel 2008 e soprattutto in Ucraina nel 2014 – che non intende assistere passivamente all’erosione della “sua” area. Quindi bisogna vedere come e se vorrà salvare Lukashenko. E questo nonostante le recenti tensioni tra i due Paesi a causa del progetto di fusione di Putin, finora sempre bloccato dal dittatore bielorusso.
I bielorussi, insomma, sanno di essere soli, ma continuano a battersi contro una dittatura che ha fatto il suo tempo. Per questo l’occidente deve sostenerli, appoggiando una transizione democratica che oggi sembra impossibile senza un accordo con Putin.