A Tresnuraghes hanno intitolato il Centro sociale ai cognati Martino Mastinu e Mario Bonarino Marras. A Orune il campo sportivo ai fratelli Mario e Francesco Zidda. A Samugheo ricordano i fratelli Anna Maria Rita e Vittorio Graziano Perdighe, studenti all’Università de La Plata, e a Orosei l’operaio Antonio Chisu. Sette giovani sardi uccisi alla metà degli anni Settanta in Argentina poco dopo il feroce golpe militare guidato dal generale Jorge Rafael Videla. Tra loro in comune hanno le modeste origini isolane, l’emigrazione con le famiglie in Sud America in cerca di una vita migliore, l’impegno politico nel sindacato operaio o, come i due Perdighe, l’attivismo studentesco a favore dei più poveri che vivevano nelle baraccopoli. Ad unirli c’è poi la tragica fine, inghiottiti nella voragine dei trentamila desaparecidos che furono barbaramente eliminati dai militari. Sequestrati, torturati e infine scomparsi nelle fosse comuni o in mare. Fu in quel periodo che venne coniato sui giornali il sostantivo desaparecidos entrato in tutte le lingue con una accezione più ampia perché indica non solo la fine (cioé la scomparsa), ma un metodo di eliminazione degli avversari politici brutale e crudele perché implica il sequestro delle vittime designate nel più totale silenzio, la reclusione nelle prigioni clandestine senza alcuna registrazione e diritto legale, di norma la tortura, infine l’uccisione.
Per questo ogni 30 agosto si celebra la “Giornata internazionale delle vittime delle sparizioni forzate”, istituita ufficialmente il 21 dicembre 2010 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Una ricorrenza che quest’anno assume un rilievo particolare, a pochi giorni dal cinquantesimo anniversario del golpe cileno dell’11 settembre 1973 del generale Pinochet, da cui Videla e sodali impararono la lezione di crudeltà, ma evitando i suoi errori di far rinchiudere i prigionieri nello stadio di Santiago e di mostrare alle Tv internazionali mucchi di cadaveri. Videla ideò il massacro silenzioso così da nasconderlo al mondo. Ma i suoi orrori vennero svelati dopo la caduta del regime nel 1983, con un processo choc per gli argentini e i Paesi democratici, tanto dai essere riconosciuto come crimine contro l’umanità dallo Statuto di Roma del 17 luglio 1998 in occasione della costituzione del Tribunale penale internazionale e dalla risoluzione delle Nazioni Unite 47/133 del 18 dicembre 1992.
L’obiettivo dei militari argentini era duplice: eliminare fisicamente gli oppositori (o presunti tali) di tutte le classi sociali e idee politiche, gettando nel contempo il Paese in un clima di terrore. Videla e i suoi generali ci riuscirono per sette anni prima di essere cacciati e processati dopo la sconfitta contro gli inglesi nella guerra delle Falkland. Ma fecero scuola nel mondo. Questo terribile metodo di repressione, inventato in Argentina, fu ben presto adottato da tutte le dittature Latino americane e poi esportato negli altri Continenti.
Da allora non è mai venuto meno, in nessuna regione, che si tratti di migranti delle diverse rotte di transito, di rifugiati, di vittime della tratta di esseri umani, di dissidenti politici, di voci sgradite ai potenti. La Grecia durante la dittatura dei colonnelli; la Cambogia dei Khmer rossi; l’Iraq di Saddam Hussein; l’Iran degli Ayatollah; la Libia di Gheddafi; il Perù della guerra fra esercito e Sendero Luminoso; la Colombia e il Messico nella lotta per il narcotraffico; la Siria dove, dal 2011, oltre 82 mila persone sono scomparse; l’Egitto di al-Sisi nel quale si contano in media tre casi al giorno. In Afghanistan con l’arrivo al potere dei talebani. E oggi nei territori contesi nella guerra in Ucraina con migliaia di civili deportati, in Russia e Bielorussia dove vengono arrestati illegalmente tutti gli oppositori.
Per questo non dobbiamo considerare il fenomeno dei desaparecidos il retaggio di un triste passato, ma dobbiamo sempre indignarci e appoggiare chi ogni giorno manifesta nel suo Paese per denunciare la repressione e i crimini delle dittature.