Mentre gli italiani si preparano alle vacanze o sono già al mare, l’attenzione dei media è concentrata sugli sviluppi del braccio di ferro tra Salvini e le Ong sulla questione dei migranti. La bellezza di Lampedusa oscurata dalle drammatiche immagini della “Sea Watch 3” fa pensare ad un’altra estate senza pace. È straniante parlare sotto l’ombrellone di fatti che accadono in un mondo che sembra lontano, ma che lontano non è. Oltre l’orizzonte delle nostre spiagge la parola pace ha un diverso significato. Sull’altra costa del Mediterraneo c’è un intero continente in fibrillazione e un Medio Oriente in fiamme. Non ce ne accorgiamo o più semplicemente ce ne disinteressiamo, occupati come siamo a discutere dei conti di casa nostra, ma quei migranti che vogliono sbarcare a tutti i costi in Europa ci raccontano di un mondo sconvolto dalle guerre.
Mai come oggi dall’ultimo conflitto mondiale si spara, bombarda e uccide nei vari angoli del pianeta. Con la fine del ventesimo secolo – il secolo dei regimi totalitari, degli stermini di massa, delle esplosioni nucleari e di decine di milioni di morti nelle due guerre mondiali – si sperava in un terzo millennio di pace. Così non è stato perché era sbagliato il presupposto che la fine dei blocchi tra Est e Ovest, dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’impero sovietico, avrebbero fatto cessare le tensioni internazionali. Anzi, i conflitti si sono moltiplicati a macchia di leopardo in un crescendo inarrestabile.
Il “secolo breve”, come dice Eric Hobsbawm, «è finito in un disordine mondiale di natura poco chiara e senza che ci sia un meccanismo ovvio per porvi fine o per tenerlo sotto controllo. La ragione di questa impotenza – spiega lo storico inglese – non sta solo nella profondità e complessità delle crisi planetarie, ma anche nel fallimento apparente di tutti programmi, vecchi e nuovi, per gestire o migliorare la condizione del genere umano».
Così nel 2019 si contano ben 69 conflitti in corso. Lo dicono i dati dell’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED), un progetto di raccolta, analisi e mappatura delle crisi armate. Divisi per aree geografiche, i conflitti più gravi restano quelli in Siria, Libia, Yemen e Afghanistan, ma l’analisi non lascia fuori l’Africa nera, come zona più turbolenta, e tutta una serie di conflitti a bassa intensità che dilania il globo. Negli ultlimi due anni (tra il 2017 e il 2018) i morti “censiti” sono stati 260 mila, di cui 70 mila in Siria e altrettanti in Afghanistan, 37 mila in Iraq e 34 mila nello Yemen. Quasi 50 mila hanno perso la vita in Africa, dove la guerra civile in Somalia ha fatto diecimila vittime e novemila in Nigeria.
Rispetto al passato sono cambiate le vittime al 90 per cento civili, se si pensa che erano il 5 per cento all’inizio del Novecento, il 15 per cento durante la Grande Guerra, il 65 per cento alla fine della Seconda guerra mondiale.
Nuove armi e nuovi modelli di conflitto, che includono attacchi deliberati contro i civili, hanno cambiato la guerra tradizionale. La guerra moderna è sempre meno una questione di confronto tra eserciti regolari e fatta più di lotte tra militari e civili o tra clan nemici di civili armati nello stesso paese.
Le guerre sono essenzialmente conflitti interni a bassa intensità e durano più a lungo. I giorni delle battaglie tra soldati di professione che si affrontano in uno scenario lontano dalle città sono finiti da tempo. Oggi si combatte dalle finestre delle case, nei vicoli dei villaggi e delle periferie, dove non è possibile distinguere tra combattenti e non combattenti.
Così pure sono cambiati i teatri di sfida: non più battaglie in campo aperto tra eserciti schierati, ma guerre asimmetriche combattute in gran parte dentro le città, tanto che un gruppo di architetti jugoslavi agli inizi degli anni Novanta coniò un significativo neologismo: “urbicidio”, per indicare quello che stava accadendo nel loro paese. Uccidere le città sembra essere lo scopo della guerra contemporanea.
Oltre le vittime e i teatri di guerra sono cambiati anche gli attori. Con la conclusione delle missioni Onu e Nato in Afghanistan e in Iraq non si affrontano più gli eserciti tradizionali delle forze multinazionali di pace che hanno lasciato spazio alle milizie irregolari, alle bande dei clan tribali, ai gruppi terroristici che hanno trasformato la guerra in un immenso business. Secondo un rapporto dello svedese “Uppsula Conflict Center”, ben 816 gruppi armati sono oggi coinvolti nelle varie guerre e meno di un centinaio sono eserciti regolari.
Appare sempre più difficile, se non impossibile, raggiungere una pace sedendosi attorno a d un tavolo, come era abitudine tra gli stati. Per questo la guerra in Afghanistan dura da 18 anni, l’Iraq dal 2003, quelle in Siria e Libia dal 2011. E c’è chi, non a torto, rimpiange Gheddafi visto che nessuna forza militare e politica sembra in grado di mettere fine all’orrore dei campi di raccolta in Libia dove vengono rinchiusi e torturati migliaia di africani respinti o in attesa di migrare in Europa.