Nella immensa tragedia che tutte le guerre procura, almeno un risultato positivo sembrava avesse portato l’infame aggressione dei russi all’Ucraina: quello di aver compattato in pochi giorni un’Europa da anni spaccata tra politiche unitarie e derive nazionaliste. La crisi della comunità europea si stava superando con un inedito consenso per fermare il conflitto attraverso scelte condivise da quasi tutti i 27 Paesi: aiuti umanitari e armi a Kiev, misure economiche contro Mosca, trattative aperte per arrivare ad una pace accettabile per il futuro del popolo ucraino. Nella nuova intesa emergeva il convincimento generale di contrarietà ad un intervento diretto armato degli occidentali, cioé della Nato, per evitare il rischio di una terza guerra mondiale. Ma il fatto più sorprendente è stato la pronta risposta per l’accoglienza dei profughi ucraini, che ormai si avvicinano ai quattro milioni, con una gara di solidarietà che ha visto tutti i coinvolti, a partire dalla Polonia la quale, come confinante, sta svolgendo uno sforzo eccezionale. Proprio i polacchi che riguardo alle politiche per i migranti sono stati tra i più strenui oppositori nell’Ue insieme ai Paesi del cosiddetto gruppo di Visegrad, di cui fanno parte anche Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria.
Dopo le recenti elezioni ungheresi, che hanno visto la vittoria di Viktor Orbán premier per il quarto mandato consecutivo, questo gruppo è ad un passo dallo sfaldamento per le posizioni del leader nazionalista e filoputiniano appoggiato dal 53 per cento di consensi. La sua vittoria non è stata inaspettata (i sondaggi lo davano in vantaggio), ma il risultato dell’urna così netto lascia perplessi chi crede fermamente nell’Europa democratica e solidale, schierandosi con altrettanta forza nel condannare Putin sotto ogni aspetto. Dall’aggressione alla distruzione di un Paese indipendente, dai massacri dei civili uccisi dai missili sino agli orrori sulla popolazione inerme, così come mostrano le immagini di Bucha e di altri villaggi abbandonati dai russi in fuga o ripiegamento (si vedrà dalle prossime mosse dell’Armata Rossa).
L’unità ritrovata allo scoppio della guerra sembra si stia sfilacciando alla luce degli ultimi eventi. Dopo un mese è a rischio quell’intesa comunitaria raggiunta nel fronte compatto anti Putin, con la prospettiva di vanificare una politica finalmente europeista che poteva far pensare all’Ue come a un forte soggetto indipendente in grado di porsi allo stesso tavolo di Washington e di Mosca.
A parte la macchina degli aiuti umanitari e dell’accoglienza che sta operando con generosità ed efficienza, si delineano differenze sulle altre scelte decisive: il taglio netto delle forniture di gas e petrolio della Russia (tedeschi e austriaci sono contrari) costi quel che costi per evitare il paradosso di finanziare la guerra di Putin; nuove e più drastiche misure di embargo economico; forniture di armamenti più potenti che davanti ad una nuova strategia dei russi sarebbero decisivi per l’offensiva finale. Su questi punti si stanno confrontando i leader europei per trovare una linea comune per fermare la guerra, ma quell’unità iniziale non c’è più.
Certo l’Ucraina non entrerà mai nella Nato, ma si dovrà vedere come farla entrare rapidamente nell’Ue dove l’Ungheria è messa all’angolo dalla sua politica ambiguamente neutralista (né con Putin, né con Zelensky) e la Serbia, che pure ha appena rieletto presidente Aleksandar Vucic, ultranazionalista e putiniano, bussa dal 2012.
Da anni la Serbia ha fatto del processo di adesione a Bruxelles una priorità della propria politica estera e la stessa Commissione Europea ha riconosciuto il ruolo importante di questo Paese nel processo di allargamento in corso. L’Ue insieme con i suoi Stati membri è il primo partner commerciale, il primo investitore e il primo donatore della Serbia nonostante i suoi nuovi interessi per Cina e Turchia. Ma la posizione di Vucic nei confronti dello zar del Cremlino e le crescenti tensioni etniche con l’ex provincia del Kosovo, fanno sì che la Serbia dovrà aspettare ancora a lungo.
Preoccupa invece il presente dell’Ungheria. I padri e i nonni di questi elettori che hanno votato per Fidesz nel 1956 scesero nelle piazze di Budapest con i fucili e le molotov per fermare i carri armati sovietici che a bordo avevano soldati provenienti dalle lontane province della Siberia e dell’Asia. Proprio come i massacratori di Bucha.