Mentre le fiamme devastavano l’Oristanese in un lungo weekend di paura, in un angolo della Barbagia, alle porte di Orune, si svolgeva la commossa cerimonia di intitolazione di un campetto di calcio alla memoria di due giovani emigrati morti tragicamente dall’altra parte dell’Atlantico. In Argentina, a metà degli anni Settanta. Mario Zidda, poco più che ventenne, militante in un’organizzazione di sinistra, fu catturato insieme a due compagni da una squadraccia di paramilitari e ucciso con un’esecuzione in piena regola. I giornali locali diedero risalto al fatto raccontandolo come uno scontro a fuoco tra forze governative e pericolosi guerriglieri. Il fratello Francesco, in seguito imprigionato e torturato, fu invece rilasciato, ma non si riprese più morendo di malattia cinque anni dopo meno che trentenne. In quel periodo l’Argentina visse una serie di golpe di generali che si succedevano al potere. Il 24 marzo del 1976 si insediò alla Casa Rosada il generale Videla instaurando un feroce regime appoggiato dalla Cia e dal governo di Washington che, in piena “guerra fredda”, temeva il diffondersi del comunismo in tutta l’America Latina. In Cile Pinochet aveva già imposto una dittatura ferrea, ma era rimasto isolato dal resto del mondo dopo i filmati in tv dei dissidenti reclusi sulle gradinate dello stadio di Santiago. Videla non volle commettere lo stesso errore d’immagine e soprattutto alienarsi le amicizie e gli affari con l’Europa. Così la sua giunta escogitò un metodo per imporre il potere col terrore: la desaparición. Militari e paramilitari mascherati dovevano sequestrare nella notte, rinchiudere in una delle 200 carceri clandestine aperte nel Paese, torturare e infine uccidere le vittime facendole sparire. Ed ecco i desaparecidos scaraventati dagli aerei nell’Oceano o sepolti in fosse comuni.
Alla fine, quando nel 1983 cadrà la dittatura, si conteranno almeno 30 mila scomparsi, tra cui 500 cittadini con passaporto italiano e tra questi una decina di sardi. Un bilancio ben più pesante dei tremila desaparecidos cileni, in una statistica dell’orrore dove i numeri mostrano solo l’ampiezza del massacro e non la tragedia di un singolo crimine. Chi furono le vittime del “genocidio” di un’intera generazione? A pianificarlo furono gli stessi generali che diedero precise disposizioni documentate nei vari processi: prima gli oppositori dichiarati, i sindacalisti e i politici di sinistra, poi giornalisti, avvocati, intellettuali, artisti, insegnanti e studenti, persino i sacerdoti, e via via tutti coloro anche solo sospettati di essere potenziali dissidenti. Di loro non si doveva sapere più niente, come non fossero mai esistiti. Così fu sequestrato Martino Mastinu di Tresnuraghes, leader sindacale nei cantieri navali di Tigre, scomparso nel 1976.
I fratelli Mario e Francesco Zidda, nati a Orune, ed emigrati bambini con la famiglia ai primi anni 50, appartenevano al movimento dei Montoneros. Mario era studente e Francesco operaio, impegnati nella vita dei quartieri popolari, ricchi di ideali per un mondo migliore, con il coraggio e l’incoscienza dei giovani pronti anche alla lotta armata. La loro vicenda si inquadra in quel contesto storico tra il golpe di Pinochet in Cile e la presa di potere di Videla in Argentina, dove la pratica della desaparición fu adottata su larga scala. Una storia che non è finita perché dagli inizi di questo secolo si sono aperti nei loro Paesi e anche in Italia diversi procedimenti contro gli ideatori e gli autori di quei massacri.
L’Italia dal primo processo di Roma che portò nel 2004 alle condanne definitive dei militari argentini per l’uccisione dei sardi Martino Mastinu e del cognato Mario Bonarino Marras ha avviato e concluso un’altra decina di giudizi. L’ ultima sentenza della Cassazione è del 7 luglio scorso quando i giudici romani hanno condannato all’ergastolo 14 tra militari e gerarchi dei regimi cileni e uruguaiani che, nell’ambito del “Piano Condor”, fecero uccidere 47 cittadini italiani. Ora il nostro governo dovrà chiedere l’estradizione dei condannati, molti ormai anziani o irreperibili. Probabile che non sconteranno mai la pena, come sembra difficile arrestare tre di costoro che da tempo si sono nascosti proprio in Italia e si fanno beffe dei giornalisti che vanno a cercarli. Uno (don Franco Reverberi, ex cappellano militare) continua a celebrare messa in un comune emiliano.
Per questo, dopo mezzo secolo, è stato importante ricordare nel loro paese i fratelli Zidda e con loro tutti i sardi vittime della desaparición, perché quella immensa tragedia non si è ancora chiusa.