La sindrome dei reduci sardi

Il ritorno dalle missioni di pace

Quando a Natale è venuta in Sardegna un’amica di famiglia ha raccontato che il marito, militare dell’Esercito da qualche tempo in pensione, non riesce ancora ad abituarsi alla quotidianità della vita civile. La signora di origini sarde ha messo radici nella penisola, non lontano dalla caserma dove era assegnato il marito che, in realtà, ha trascorso più della metà degli ultimi vent’anni all’estero. Ed ora che è tornato – ha confidato – continua ad essere altrove con la testa. In casa non c’è mai e quando c’è sta pensando ad altro. Spegne la tv se si vedono immagini di guerra o film d’azione. Cerca di tenersi sempre occupato con il volontariato e frequenta un corso di religione. Dorme poco e spesso ha un sonno disturbato. La moglie crede abbia incubi, anche se lui non ne parla. Quando era in servizio poteva andare dallo psicologo militare, ora si deve pagare ogni visita e sono cento euro a seduta. La pensione non basterebbe per una terapia costante. Ma la malattia non gli è stata riconosciuta. E lui per primo – ha detto la signora – preferisce far finta di niente.

Per la sua specializzazione è stato costretto a fare quasi tutti i turni delle missioni dagli anni Novanta ad oggi, alternati da brevi periodi di riposo in Italia, con il massimo impegno e rischio in Iraq e poi in Afghanistan. Tre volte è finito in mezzo agli scontri a fuoco, dove altri sono stati feriti e uno è morto.

Il mestiere del militare, per definizione, comporta sempre pericoli, anche nelle missioni di pace che si svolgono in Paesi come Iraq e Afghanistan, mai usciti dalla guerra. Molti di questi militari sono stati colpiti dalla «sindrome del Vietnam», i disturbi post traumatici da stress di combattimento (Dpts) provocati da eventi drammatici come un attacco kamikaze, i combattimenti contro i talebani, gli attentati lungo le strade dell’Iraq. I sintomi più acuti sono incubi terribili, crisi di panico, aggressività, istinti suicidi, ma i numeri dei soldati che hanno la “guerra dentro” sono ancora un mistero.

Bersaglieri della Brigata Sassari in partenza per una missione

Di recente il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha ordinato «un bilancio totale, corretto e reale» sui militari colpiti da disturbi psicologici, dopo le missioni. Per ora si conosce solo la punta dell’iceberg: dal 2009 al 2018 sono stati rimpatriati dai teatri operativi 222 militari con problemi mentali di vario genere. Dal 2005 al 2011 i casi accertati erano stati 267. Per vergogna, ignoranza, ostacoli burocratici o problemi legati ai riconoscimenti economici la “malattia fantasma” è rimasta a lungo un tabù. Se non ci sono segni evidenti, le stesse vittime preferiscono il silenzio sino a nascondere o a negare il danno, temendo ripercussioni nella carriera o le reazioni consolatorie e incredule della gente.

Come il marito della signora sarda quanti reduci isolani impiegati all’estero, tra le migliaia di “sassarini” e di altri reparti, devono fare i conti con i postumi della guerra? Si parla spesso e sono in corso procedimenti civili per il riconoscimento delle morti e delle patologie causate dall’uranio impoverito, ma quanti soffrono lo stress di combattimento? Chi si occupa di loro dopo il congedo, se la “Dpts” non viene classificata come patologia causata dal lavoro?

Negli Usa la malattia, riconosciuta a partire dalla guerra del Vietnam (da qui il nome) è diventata un problema non solo sanitario, ma anche sociale perché molti reduci rimasti soli, disoccupati, disabili, finiscono tossicodipendenti e criminali. Il consumo costante di droga, anche per lenire i dolori e lo stress, ha accentuato la loro aggressività trasformandoli, in numerosi casi, in assassini. Gli americani, davanti al rientro di decine di migliaia di reduci dall’Iraq, dall’Afghanistan e dalle altre missioni nel mondo, hanno aperto ospedali specializzati e servizi di assistenza.

In Italia si pensa che il fenomeno sia limitato e che colpisca una minima parte di militari, visto che “politicamente” si considerano di pace le missioni dove si combatte ogni giorno. E così si preferisce tacere.

Fonti:

L’Unione Sarda, 24.02.2019

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