Riportiamo l’introduzione di Nicola Gabriele al suo volume “Modelli comunicativi e ragion di Stato/ La politica culturale sabauda tra censura e libertà di stampa (1720-1852)”, di cui parliamo nei precedenti post. Un ampio saggio nel saggio che riassume i vari temi affrontati nel corso del volume soffermandosi in particolare sulle difficoltà della ricerca per la carenza di una precedente storiografia sull’argomento censura-libertà di stampa nel periodo preunitario. Gabriele col suo puntuale e approfondito lavoro va a colmare questa lacuna e apre la strada ad ulteriori studi che lui stesso ha già avviato e in parte pubblicato.
———————————————————–
Il tema della censura occupa uno spazio particolare entro la
riflessione storiografica. Esso consente di far luce su dinamiche, trasformazioni
e conflitti tra i differenti poteri della società europea ed
italiana dal XVIII secolo fino alla prima metà del XIX e fornisce strumenti
utili per comprendere meglio la capacità dei governi nel controllare
la circolazione delle idee. Dalla lettura dei più recenti contributi su questa tematica, si
può notare come l’interesse della ricerca si sia concentrato prevalentemente
su un arco cronologico compreso tra i secoli XVI e XVIII, arrivando solo talvolta alle soglie del XIX.
Questo atteggiamento è facilmente motivabile con la centralità attribuita dagli
autori alla Rivoluzione Francese e, in particolare, alla Dichiarazione
dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 che
sanciva la vittoria delle idee illuministe proclamando la libertà di
comunicazione del pensiero e la libera trasmissione delle opinioni
quale inviolabile diritto. L’art. 2 afferma infatti che «la libera
comunicazione del pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più
preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere,
stampare liberamente, salvo rispondere degli abusi di questa
libertà nei casi determinati dalla legge». Del resto già nel 1776
un Bill of Rights dello Stato della Virginia, all’articolo 12, aveva
decretato che «la libertà di stampa è uno dei baluardi più potenti
della libertà». Tutto ciò avrebbe dovuto segnare la fine della censura
sulla circolazione delle opere a stampa con lo smantella
mento di tutti gli organismi e le strutture che a lungo erano state
preposte a questo controllo.
La Dichiarazione del 1789
La Dichiarazione dell’89 ebbe una portata certamente determinante
nell’evoluzione delle libertà civili e politiche della società europea
e di conseguenza nella costruzione degli apparati istituzionali
degli Stati nel corso dell’Ottocento; essa costituisce comunque solo
una tappa di un processo in atto dalla metà del Settecento che però,
con la Restaurazione, vide risorgere, e talvolta in forma più raffinata,
le strutture istituzionali sia ecclesiastiche che laiche deputate
all’attività di controllo, non solo nell’Italia preunitaria, ma in quasi
tutti gli Stati europei restaurati a cominciare dalla Francia di Carlo
X. Il controllo sulla libera circolazione delle idee, a fianco ai tradizionali
strumenti della censura e dei privilegi, mise a punto una scrupolosa
intelaiatura burocratica, apparentemente invisibile, in grado
di limitare di fatto anche i diritti sanciti dalle carte costituzionali
superstiti: il fenomeno si manifestò, ad esempio, con l’aumento delle
tariffe postali, con le marche da bollo da apporre su ogni foglio o
manifesto stampato, con l’introduzione di onerose cauzioni impiegate
come deterrente per eventuali sanzioni economiche in cui era
facile incorrere, e così via.
Tuttavia anche durante la precedente epoca napoleonica il
fenomeno si era manifestato in forme ben precise, come è stato evidenziato
in tempi recenti. Se da un lato, infatti, venne accantonata
la censura preventiva sul materiale librario di prossima pubblicazione,
permase l’attività di controllo e di vigilanza da parte della
polizia sulle stamperie ed in modo particolare sui periodici che
cominciavano a diffondersi in abbondanza proprio a fine Settecento
quando si percepì il pericolo rappresentato dalla produzione periodica
di fogli e gazzette che, proprio per la maggiore facilità di realizzazione
e per l’immediatezza con la quale erano in grado di
comunicare e diffondere idee sovversive, divennero oggetto di sorveglianza
da parte di nuovi appositi organismi finalizzati alla tutela
dell’ordine sociale.
Le censura libraria
La storiografia italiana è ricca di interventi e di contributi, in
particolare sulla censura libraria nell’età della Restaurazione, ma
la maggior parte degli studi risulta ormai datata. La produzione esaminata
appare essersi concentrata soprattutto in due momenti ben
definiti e distinti, l’età postunitaria ed il periodo fascista. I primi
lavori, comparsi tra gli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento,
appaiono improntati all’anticlericalismo, come è riscontrabile nei
lavori di Antonino Bertolotti, Carlo Lozzi e Adeodato Bonasi. All’età
fascista risale una seconda produzione di studi, i quali, benché pregevoli
per una meticolosa indagine archivistica che ha consentito
alle generazioni successive di fruire della copiosa documentazione
rinvenuta, hanno il limite di essere intrisi di retorica patriottica che
talvolta genera evidenti forzature. Gli uni e gli altri inoltre mostrano
un carattere quasi esclusivamente aneddotico.
Studi più attuali hanno preferito concentrare l’attività di ricerca
e di interpretazione ad ambiti prettamente locali, nel tentativo di
individuare meglio pratiche, applicazioni e forme di controllo sulla
circolazione delle idee tra le istituzioni dei vari Stati preunitari. Il
caso più recente è rappresentato dal Convegno di studi tenutosi a
Faenza nel 2005 su «Potere e circolazione delle idee: stampa, accademie
e censura nel Risorgimento italiano», in occasione delle celebrazioni
per il bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini, che
ha coinvolto un vasto numero di studiosi e di specialisti del settore6.
L’interesse per il fenomeno ha assunto una dimensione regionale, in
taluni casi circoscrivendo l’indagine alle città ove erano stati dislocati
gli organismi di vigilanza sull’informazione; altre volte i contributi
hanno cercato di ampliare gli orizzonti della ricerca, con l’attenzione
sempre rivolta alle specifiche realtà delle regioni storiche italiane.
La censura nell’Italia preunitaria
La mancanza di una visione d’insieme e di spunti interpretativi di
più ampio respiro risulta essere uno dei primi limiti per chi si appresta
ad intraprendere una riflessione sull’operato della censura nell’Italia
preunitaria in qualsivoglia ambito geografico. Oltrepassare
tale limite appare, tuttavia, metodologicamente complesso, poiché ad
essere presi in esame erano Stati d’antico regime, ognuno dei quali si
ispirava a modelli differenti e distanti tra loro. A ciò si aggiunga la
carenza di riferimenti bibliografici per il periodo compreso tra la fine
dell’età napoleonica e la formazione dello stato unitario.
Per quanto riguarda poi il presente studio, che si propone di circoscrivere
l’attenzione alle istituzioni censorie laiche del Regno
sabaudo, si deve a malincuore prendere atto della povertà di studi
e dell’inadeguatezza delle letture interpretative esistenti per quanto
concerne il Piemonte, la Liguria e la Savoia, mentre sono pressoché
inesistenti studi organici di questa natura relativi alla Sardegna, sia
per quanto riguarda l’età precedente alla Restaurazione, sia per
tutta la prima metà dell’Ottocento. Ancora disatteso rimane, dunque,
l’auspicio di Francesco Lemmi, quando affermava che «chi
opera definitiva vorrà compiere, prima o poi, almeno in questo
campo ristretto e pur così pieno di lacune, d’incertezze e di errori,
non giudicherà fatica inutile l’aver tratto dalla polvere degli archivi
un insieme di notizie tutt’altro che prive d’interesse storico e, comunque,
sin qui ignote, completamente o quasi, ai più benemeriti studiosi
del giornalismo italiano. Di fronte alla lacunosità riscontrata
appare quanto mai preziosa una delle poche voci che nel panorama
storiografico sardo hanno rivolto l’attenzione alla censura, quella di
Vincenzo Corrias, che tra la seconda metà degli anni Sessanta ed i
primi anni Settanta del secolo scorso dimostrò interesse per la
stampa isolana della seconda metà del Settecento10. Tuttavia la sua
produzione rimane circoscritta ad un arco temporale assai breve,
essendo compreso tra il 1759 e il 1764, e non offre una riflessione di
ampio respiro; l’indagine si esaurisce infatti nell’intento di ripercorrere
le vicende che portarono alla realizzazione della legislazione
sulla censura nel Regno di Sardegna, risalente al gennaio del 1764.
Entrando nello specifico, il presente contributo si propone, pertanto,
anche di realizzare un primo approccio ad una problematica
vasta e complessa, perché inserita nell’ambito dei rapporti tra il
governo di Torino e la Sardegna la quale, seppur sottoposta alla dinastia
sabauda, in quanto Regnum mantenne fino al 1847 proprie istituzioni,
contestualmente all’autonomia del suo Parlamento di ordini
privilegiati. La presenza di queste istituzioni, politicamente dipendenti
da Torino, ma giuridicamente parallele a quelle degli Stati di
Terraferma, pur in sostanziale declino fin dalla prima metà del Settecento,
e ancor più nei primi decenni dell’Ottocento, imponeva l’esistenza
di organismi specifici e distinti da quelli preposti all’attività
censoria nei territori peninsulari del Regno. È sembrato necessario,
dunque, operare sui due fronti, con intensità diversa a seconda del
variare delle situazioni politiche interne ed esterne al Regno di Sardegna.
Entro tale scelta, in avvio, è parso ovvio che, per realizzare
un approfondimento sulle dinamiche che accompagnarono la nascita
dell’attività pubblicistica e giornalistica nell’isola,
si dovesse tenere conto, appunto, della sua particolare condizione.
La Sardegna, infatti, nel suo rapporto con il governo di Torino, vive tra il Settecento e tutta
la prima metà dell’Ottocento un destino, sotto alcuni aspetti, del tutto
originale e distinto rispetto a quello degli altri Stati preunitari.
Più precisamente per quanto riguarda il piano politico-istituzionale
l’esistenza del Regnum Sardiniae aveva indotto i governi
sabaudi ad adattare scelte politiche di fondo improntate ad un riformismo
dall’alto, solo formalmente rispettose dei trattati internazionali
del 1718-1720, ma volte a realizzare una lenta e continua trasformazione
delle condizioni politiche, giuridiche ed economiche dell’isola,
che pure, fino al 1837, avrebbe visto il permanere dell’istituto
feudale. Allo stesso tempo, sul piano culturale, si assiste, in due
distinte tappe, l’una appena conseguente alla riforma delle Università
nella seconda metà del Settecento, l’altra a partire dagli anni
Venti dell’Ottocento, ad un risveglio, ad una vera e propria «rinascenza»
che trova parte delle sue premesse proprio nella politica
scelta dal governo sabaudo per conformarla agli Stati di Terraferma,
per certi versi già con Carlo Felice, ma soprattutto con Carlo Alberto.
Il controllo dell’informazione
Proprio tenendo conto dei due aspetti indicati si può meglio comprendere
come il controllo dell’informazione e la vigilanza sulla circolazione
delle idee, e dunque sulla stampa periodica, assumessero
un ruolo fondamentale all’interno di un disegno organico di costruzione
di uno Stato totalmente accentrato.
Le fonti negli Archivi
La presente ricerca è stata svolta su documenti presenti negli
Archivi di Stato di Torino, Genova e Cagliari, negli Archivi Storici
Comunali di Torino, Cagliari e Sassari, nella Biblioteca dell’Accademia
delle Scienze di Torino, nella Biblioteca Reale di Torino, nella Biblioteca
Storica della Provincia di Torino, nell’Archivio Arcivescovile di
Cagliari e nelle Biblioteche Universitarie di Torino, di Cagliari e di
Sassari, nella Biblioteca Comunale di Sassari nonché in alcuni archivi
privati sardi e piemontesi e si avvale di molti altri documenti, conservati
in svariati altri archivi nazionali ed internazionali, ai quali
numerosi studiosi hanno già rivolto le loro attenzioni. Un’indagine di
questo tipo deve necessariamente partire dalla constatazione di come
fosse strutturata ed organizzata l’attività censoria a Torino e negli
Stati Sardi di Terraferma. Senonché appunto in questo campo l’indagine
mostra subito ineluttabili difficoltà derivanti dalla quasi totale
assenza, a tutt’oggi, di un valido ed efficace lavoro di ricostruzione
in merito al funzionamento della censura preventiva sotto il governo sabaudo.
Oltremodo datati e metodologicamente inaccettabili risultano
gli unici due lavori di una certa consistenza realizzati sull’argomento
da Antonio Manno nel 1907 e Francesco Lemmi nel 1943,
mentre in tempi recenti Lodovica Braida ha dedicato alle norme sulla
censura tra Seicento e Settecento una sezione del volume Il commercio
delle idee. Editoria e circolazione del libro nella Torino del Settecento.
A ciò va ad aggiungersi, ultimo in ordine cronologico, il contributo
di Gian Paolo Romagnani nell’ambito del convegno sulla censura
degli Stati preunitari cui si è già fatto riferimento13.
Per le ragioni esposte la ricerca si è concentrata più su una
visione complessiva dell’apparato legislativo e dell’avvicendamento
di provvedimenti che hanno regolato e disciplinato la materia a partire
dalla metà del XVII secolo, piuttosto che sull’applicazione di tali
norme. Si tratta, in particolare, dell’Editto 9 gennaio 1648 della Reggente
Maria Cristina, dei regolamenti inseriti nelle Regie Costituzioni
per l’Università del 25 ottobre 1720, dell’Editto 29 ottobre 1721, degli
articoli delle Regie Costituzioni del 1723 e delle Costituzioni per l’Università
degli Studi del 1729, delle Istruzioni pe’ revisori de’ libri, e
stampe diretta al sig. Cavaliere Morozzo del 1745, dell’Istruzione
segreta per li Revisori dei libri e stampe di Carlo Emanuele III del
19 giugno 1755, dell’Istruzione per li Revisori di Vittorio Emanuele I
(25 giugno 1816), del Regio Editto con cui si stabilisce in Torino una
Commissione di Revisori di Carlo Alberto (27 settembre 1831); a questi
si aggiungono numerosi Biglietti emanati dalla Regia Segreteria
dell’Interno e le Circolari della Grande Cancelleria, particolarmente
dopo il 1816.
Per le stesse ragioni, realizzare un raffronto tra l’attività della
censura ante e post rivoluzionaria è un’operazione quantomai complessa
non solo per la mancanza di adeguati spunti bibliografici; è
già possibile, tuttavia, affermare che una distinzione tra i due
momenti è individuabile nei metodi e nei criteri adottati, più che nelle
norme. Sarebbe, infatti, inesatto parlare di nuovi regolamenti sulla
censura in quanto, di fatto, vennero confermate, per lo più tacitamente,
le precedenti legislazioni in atto nel Settecento. Appare più
opportuno, invece, affermare che si verificò una riorganizzazione in
seno alle strutture che avevano il compito di intervenire in materia di
revisione per dare ad esse un nuovo assetto, più adatto alle nuove ed
incalzanti esigenze di controllo nell’Ottocento.
A riprova di ciò giungono le affermazioni di Marino Berengo per il quale,
con la Restaurazione, i funzionari di polizia si sostituirono alle figure dei bibliotecari
o dei letterati che lungo i secoli XVII e XVIII erano addetti al controllo
ed alla revisione delle opere manoscritte e a stampa. Ad ogni
modo, sebbene i provvedimenti adottati dai censori non avessero
carattere vincolante e fosse concesso rivolgere istanze al Sovrano
perché rivedesse il parere dell’ufficiale preposto, questo procedimento
imponeva ai tipografi lunghe attese legate allo scambio epistolare,
vanificando così la loro esigenza di rapidità e costringendoli ad anticipare,
talvolta, ingenti somme per la pubblicazione dei programmi di
associazione all’opera in questione, fosse essa un volume o un foglio
periodico.
Benché questo studio sia rivolto principalmente all’analisi dei
provvedimenti legislativi finalizzati al controllo del materiale cartaceo, a stampa o manoscritto,
in sede di avvio pare opportuno almeno
un breve cenno all’esistenza di un altro genere di censura, che interessava
la circolazione orale delle informazioni. Nei villaggi e nelle
piccole comunità la diffusione e interpretazione dei fatti di cronaca
e delle più significative notizie di carattere politico era, ufficiosamente,
di competenza del poeta al quale veniva tacitamente riconosciuto
il ruolo di cronista ante-litteram. Gli avvenimenti, messi in
versi, circolavano per trasmissione orale. Poco è rimasto di questa
«poesia giornalistica», anche a causa della poca considerazione in
cui venne tenuta dalla classe colta che, pur possedendone i mezzi,
non si curò di registrarla. Anche il bando era riconosciuto dalle autorità
come fenomeno pubblicistico da controllare. Lo stesso banditore,
riceveva il «privilegio» di fornire pubblicamente le informazioni
che dovevano, ad ogni modo, passare preventivamente al vaglio
del censore, rappresentato dal sindaco sul quale ricadeva la responsabilità
delle notizie. Le comunicazioni, divise in «ordini» (ordinanze
dell’autorità locale o centrale) o «permessi» (informazioni diffuse
da privati, specie commercianti), così come altri generi di informazione
e comunicazione (prediche, manifesti, fogli volanti, etc., tutti
prevalentemente manoscritti) erano sottoposti ad una rigida normativa
e sorvegliati dall’autorità.