Si avvicina il primo anniversario della fuga da Kabul e dell’ingloriosa fine della missione di pace delle Nato a guida americana. Era il 15 agosto, solo un anno fa, ma sembra un secolo quando i talebani, che a maggio avevano scatenato l’offensiva finale, presero la capitale. Entrarono nel palazzo presidenziale abbandonato in tutta fretta da Ashraf Ghani, presidente della ormai agonizzante repubblica islamica dell’Afghanistan, aprirono le prigioni liberando centinaia di terroristi jihadisti, circondarono l’aeroporto da dove era già iniziato il ponte aereo per l’evacuazione dei militari occidentali e di centinaia di civili che cercavano disperatamente di espatriare. Quelle immagini iconiche della fuga dall’ambasciata Usa e dall’aeroporto sono entrate nella storia, come le foto di Saigon nel 1975 simbolo della fine della guerra del Vietnam. Ma che sappiamo dell’Afghanistan un anno dopo? La guerra lanciata da Putin contro l’Ucraina, dentro i confini dell’Europa, ha oscurato tutto il resto del mondo. Tra missili, attentati, guerre civili, guerre tribali, spietate repressioni di vecchi e nuovi dittatori, popolazioni ridotte alle stremo per carestie e desertificazione, milioni di profughi in fuga da ogni dove, non c’è alcuna oasi che possa dirsi al sicuro da qualsiasi pericolo.
Tornando all’anniversario del 15 agosto, l’Afghanistan ci appare ed è davvero lontano. Oggi vediamo rare immagini dei talebani vestiti con le divise dei soldati americani scorrazzare con i mezzi lasciati dalle truppe occidentali, con un governo dei vincitori fondamentalisti che ha azzerato l’orologio della storia. Tutte le promesse sulle donne, l’insegnamento nelle scuole e nelle università, le non poche conquiste civili che i vent’anni di missione occidentale avevano realizzato, in gran parte non esistono più. Basta leggere i siti specializzati con le testimonianze di coraggiosi dissidenti o di esuli riusciti ad espatriare, bastano le analisi degli esperti che descrivono una deriva talebana silenziosa, ma inesorabile. Le associazioni umanitarie da mesi lanciano l’allarme per la situazione nutrizionale, già drammatica, che si è aggravata ulteriormente a causa dello scoppio del conflitto in Ucraina, uno dei maggiori esportatori di grano per l’Afghanistan. L’Unicef avverte che alla fine del 2022 un bambino su due sotto i cinque anni soffrirà di malnutrizione acuta. Secondo stime della Banca Mondiale, i redditi sono diminuiti di circa un terzo negli ultimi mesi del 2021: in Afghanistan non si trova più lavoro, non ci sono più soldi per pagare i dipendenti, la moneta circola poco. Inoltre, dalla salita al potere dei talebani moltissime organizzazioni internazionali, che lavoravano nei settori più disparati, sono andate via. Anche per questo motivo “la sanità afghana, che non ha mai funzionato bene, è al collasso e negli ospedali manca tutto. Mancano i farmaci, manca il personale”, denuncia Amnesty international. Insomma c’è bisogno di aiuti, ma oggi quale Paese è disposto a spendere per un governo di talebani inaffidabile, diviso al potere, con frange estremiste che vogliono un ritorno a politiche simili a quelle attuate dal regime degli anni ’90? È importante ricordare che i talebani non sono un’entità omogenea, ma sono suddivisi in scuole di pensiero. Inoltre Kabul è molto diversa dalle zone rurali e anche da città come Herat, Kandahar e Jalalabad. L’unico impegno manifestato agli occidentali, in cambio di aiuti economici, è di combattere contro un comune nemico e cioè l’ISIS-K. Ma gruppi radicali come al-Qaeda stanno già mostrando una nuova rinascita. Nell’oscurità mediatica le informazioni che arrivano attraverso le poche organizzazioni umanitarie rimaste raccontano un rapido ritorno al passato della sharia (le regole di vita dettate da Dio per la condotta morale).
In verità in un anno molto è cambiato, non solo in Afghanistan. A cominciare dalla politica americana con Biden costretto dagli eventi della guerra in Ucraina a rimodulare le alleanze internazionali.
Così assistiamo ai paradossi di governi considerati sino a ieri “nemici” diventare preziosi alleati (in primis l’Arabia Saudita) in chiave anti iraniana, e dittatori sanguinari come il presidente siriano Bashad al Assad “riabilitato” al suo posto per non lasciare spazio ai russi. O il sultano turco Erdogan che si è preso il ruolo di protagonista nelle trattative tra Mosca e Kiev.
Il 15 agosto di un anno fa sembrava che il mondo, già colpito e sfinito dalla pandemia, avesse toccato il fondo dei paradossi della storia. Ma non finiremo di stupirci.