Israele ha appena celebrato la ricorrenza dei 75 anni della sua istituzione, ma da mesi vive in un clima ben lontano da ogni atmosfera di festa. Dal quel 14 maggio 1948 ad oggi è stato un continuo succedersi di guerre, occupazioni, repressioni, intifada (rivolte arabe), attacchi terroristici all’interno dei suoi confini e nelle aree passate al governo palestinese. L’escalation in corso dall’inizio dell’anno fa tremare la diplomazia internazionale. Le tensioni sono all’ordine del giorno, l’ultima la settimana scorsa con la “marcia delle bandiere” che ha visto sfilare migliaia di nazionalisti israeliani nella Città vecchia di Gerusalemme est al grido di “morte agli arabi”.
Il piccolo Israele rappresenta una potenza bellica fondamentale in mezzo al mondo arabo-musulmano dove gioca un ruolo primario per gli equilibri nella polveriera mediorientale. Col suo esercito di popolo, armamenti modernissimi e un servizio di intelligence tra i migliori in assoluto, è l’unica sentinella affidabile a cui si rivolgono i Paesi occidentali per arginare le minacce dell’Iran e le crisi in atto dove altri attori si muovono con diversi interessi. Amico fedele da sempre degli americani, nonostante frequenti momenti di contrasto, resta un punto di riferimento imprescindibile per Washington.
Ora lo scenario sta cambiando con il miglioramento delle relazioni con l’Arabia Saudita e i rapporti sempre più stretti con Cina, India e Giappone, Paesi che sono destinati a contare molto di più rispetto agli Stati Uniti. Questo perché lo stato ebraico non è più debole come un tempo e non ha più bisogno di un “patron” per rispondere ai suoi bisogni di sicurezza quando gli interessi di Gerusalemme sono volti all’equilibrio di potenza in chiave essenzialmente regionale.
Ecco perché Israele è rimasta sinora neutrale nel conflitto ucraino attenta a tenere ferma la sua posizione di non allineamento. In sintesi lo stato ebraico sostiene formalmente Kiev con la diplomazia e gli aiuti umanitari, ma non ancora al punto di rifornirla con le proprie armi. Mentre resta legato a Mosca per ragioni di sicurezza demografiche e persino linguistiche (il russo è la terza lingua nativa parlata dopo ebraico e arabo).
Ma più di tutto conta il rapporto personale tra Netanyahu e Putin col quale vanta uno storico legame. Il ritorno al potere di Netanyahu, rieletto con l’appoggio dell’ultradestra lo scorso dicembre, si sta concretizzando con il congelamento degli impegni presi dal precedente governo che aveva promesso di di inviare armi a Kiev. Questo non si giustifica con i rapporti personali tra il leader e lo zar, quanto con la nuova posizione in cui si sta collocando il governo di ultradestra di Gerusalemme, con i partiti nazionalisti e ortodossi, meno interessati a rafforzare i legami con l’Occidente di cui l’Ucraina ormai si sente piena parte. Dunque tutta l’attenzione di Israele è puntata sull’attuale politica interna e sul nuovo conflitto in corso nella Striscia di Gaza che, con una reazione così forte e sanguinosa, non si può inquadrare come uno dei periodici scontri contro il terrorismo. Oltre 500 morti tra i palestinesi, centinaia di razzi lanciati dagli jahidisti, la violenta risposta israeliana con raid aerei, arresti in massa, attacchi e uccisioni di leader della Jihad Islamica.
Netanyahu dovrà fare determinanti scelte sul piano internazionale: come fermare il conflitto a Gaza; chiarire le relazioni con gli americani e le grandi potenze economiche; esprimere una posizione netta sull’appoggio all’Ucraina. Ma l’emergenza oggi è la questione interna dopo la decisione di ridimensionare il potere della Corte suprema, per lasciare mano libera ai politici. I prossimi mesi saranno decisivi per capire una situazione in piena evoluzione con manifestazioni mai viste in passato che da gennaio mobilitano tutti gli strati della popolazione, mentre i partiti di ultradestra e ortodossi che sostengono il Likud del premier, puntano a mutare la laicità che sin dalla fondazione contraddistingue la Knesset (il parlamento) verso un potere politico sempre più religioso.