Ogni 4 novembre si celebra la giornata dell’Unità nazionale e delle Forze Armate per ricordare la fine della Grande guerra con la resa dell’Impero austro-ungarico. In quella data del 1918 entrò in vigore l’armistizio firmato il giorno prima a Villa Giusti, vicino a Padova, mentre il tricolore sventolava sul castello di Trieste. È l’unica festa nazionale che abbia attraversato intatta oltre un secolo di storia italiana: dagli ultimi scampoli dell’età liberale al regime fascista, dalla nascita della repubblica dopo la Resistenza ai tempi attuali di grave crisi economica e di valori, in cui la democrazia viene messa a dura prova da un sistema politico sofferente e caotico. Questo 4 novembre cade in un tempo arduo in cui tutto il Paese è colpito dalla pandemia e in cui le parole “coesione” e “unità”, che il presidente Mattarella pronuncia ad ogni occasione come un mantra salvifico, sembrano suonare a vuoto. Ovviamente in tutta Italia non ci saranno eventi di folla e se qualcuno manifesterà avrà il volto coperto dalle mascherine anti Covid-19.
Questa celebrazione tuttavia resta viva nel suo pieno significato, che è quello del completamento dell’unità nazionale e del processo risorgimentale culminato con l’annessione del Friuli Venezia Giulia e del Trentino Alto Adige. Fu il risultato finale della Grande guerra che costò più vittime di ogni altro conflitto mondiale. L’Italia contò almeno 650 mila caduti.
La Sardegna, seppure geograficamente lontana dal fronte, si ritrovò coinvolta in prima linea perché venne mobilitata gran parte della popolazione maschile adulta. Pesantissimo fu il tributo di sangue che l’Isola pagò con oltre 15 mila morti dei 100 mila uomini chiamati alle armi su una popolazione che all’epoca era di appena 870 mila abitanti.
Eppure mai come quest’anno lo spirito unitario alla base delle celebrazioni del 4 novembre è messo a dura prova dalla situazione generale creata dal Coronavirus. Il clima politico è avvelenato dai contrasti sulle misure per fermare la pandemia. Il governo ha legiferato a colpi di Dpcm e solo ora Conte ha portato il dibattito alla discussione del Parlamento cercando di coinvolgere nelle decisioni anche le opposizioni. E soprattutto le Regioni con le quali sino a ieri il confronto è andato avanti con un inqualificabile gioco delle responsabilità da ambo le parti sulle restrizioni da adottare. In mezzo medici e virologi, da un lato parafulmine e alibi per qualsiasi drastica ordinanza, dall’altro lasciati fuori dalle decisioni che spettano in ultimo alla politica. Ed è su questo piano che il confronto si è fatto più aspro giungendo ai toni dei giorni scorsi con le reciproche accuse di strumentalizzare il virus per il proprio tornaconto politico.
Un anniversario che festeggia l’unità, ma questo 4 novembre mostra un Paese drammaticamente spaccato. Divisioni e lacerazioni dentro la stessa maggioranza e il Parlamento continuano a minare quel fronte unitario necessario per superare l’epidemia.
C’è dunque poco da celebrare in questo clima cupo e di paura, ma solo ricordare che il 4 novembre del 1918 si arrivò alla vittoria dopo la catastrofe della ritirata sul Piave, grazie a una mobilitazione formidabile che consentì di ribaltare una guerra che solo pochi mesi prima sembrava perduta. Se il passato ci ha insegnato qualcosa, come allora serve una guida autorevole, concordia nei comandi, scelte coraggiose del Parlamento e non solo del governo, che tutti i cittadini possano capire se non condividere. La guerra contro il coronavirus non è finita e la vittoria non sembra affatto vicina.