Con elezioni regionali in vista, i problemi su Mes, Ilva, Alitalia, Autostrade, l’agenda del governo è concentrata sul dibattito interno che lascia poco spazio per guardare al di là dei confini. Luigi Di Maio ha voluto per sé il dicastero degli esteri, ma tutto preso dal ruolo di leader dei Cinquestelle non gli rimane certo il tempo per pensare ad altro. Figuriamoci a fare il ministro degli esteri seriamente, impegnandosi in prima persona a tessere quella rete di relazioni e di viaggi che spetta al suo incarico. A leggere i titoli dei giornali stranieri appare assente o quasi da qualsiasi iniziativa internazionale. A parte qualche toccata e fuga, non abbiamo riscontri di una presenza propositiva e autorevole di Di Maio. Scontata e obbligata nei giorni scorsi la sua presa di posizione nei confronti dei diplomatici cinesi riguardo alle “irresponsabili” ingerenze dei politici italiani nella proteste di Hong Kong. Mentre sabato è stato il senatore Pier Ferdinando Casini a strappargli la scena riportando a Roma due parlamentari venezuelani da sei mesi rinchiusi nella nostra ambasciata a Caracas.
La Farnesina è uno dei principali ministeri che, al momento di spartizione degli incarichi di governo, fa da contrappeso agli Interni e all’Economia. Proprio per questo necessita di una presenza costante e di un lavoro che non può essere part time, affidato alle capacità di sottosegretari, dirigenti ministeriali e diplomatici i quali possono agire esclusivamente dietro precise direttive politiche e governative. Non ci sembra che l’Italia di questi mesi abbia avuto un ruolo attivo e da protagonista ai tavoli che contano.
Sono lontani i tempi di Andreotti che per arrivare a un obiettivo teneva i rapporti con gli alleati americani, ma nello stesso tempo sapeva dialogare con Gheddafi, era amico degli israeliani e interlocutore di riguardo con Arafat. Guardando agli ultimi governi si può persino rimpiangere il lavoro di basso profilo quanto efficace di Moavero Milanesi e di Paolo Gentiloni. E lo stesso Conte da premier si è mosso più del suo collega della Farnesina nel contesto internazionale, ricucendo i rapporti con Bruxelles.
Che cosa ha fatto Di Maio che meriti un titolo riguardo alla politica estera? La domanda semmai è un’altra: qual è la politica estera di questo governo diviso su tutto? Sinora sembra lasciata nelle mani dei seimila militari schierati nella quarantina di rischiose e costose missioni di pace.
Contrariamente all’azione politica, quella dei militari è l’unico capitale che abbiamo saputo spendere all’estero. Anche se ci accorgiamo di questi soldati impegnati in Afghanistan, in Iraq e in Libia solo quando finiscono coinvolti negli attentati oppure in occasione dei collegamenti televisivi per le festività. Missioni che in gran parte dovranno essere ripensate in base ai finanziamenti, ma soprattutto ai piani strategici degli alleati della Nato, a partire dalle decisioni degli americani per l’Afghanistan.
Vedremo come si muoverà l’Italia nell’ambito della diplomazia internazionale, ma nell’attuale clima politico non sarà facile prendere posizioni ben definite. L’Alleanza atlantica, in attesa del summit di capi di stato e di governo il 3 e 4 dicembre a Londra, è in fibrillazione dopo le polemiche tra Macron che in un’intervista all’Economist ha parlato di «morte celebrale della Nato» e la Merkel che ha replicato duramente definendo «piuttosto drastiche» le dichiarazioni del presidente francese. Macron (nella foto )si riferiva in particolare alle iniziative di Trump e della Turchia in Siria e nelle relazioni bilaterali con Putin, non concordate ed anzi in contrasto con le posizioni degli alleati. Inoltre ha rilanciato la proposta di un esercito europeo alternativo al sistema difensivo transatlantico. Quanto all’Italia, le avvisaglie di una crisi dell’asse franco-tedesco, se confermate, potrebbero aprire la strada a una politica di riavvicinamento tra Roma e Berlino, stoppando le fughe in avanti di Macron e prevedendo un nostro ruolo più incisivo qualora i britannici dovessero defilarsi nel dopo Brexit.
Il dibattito si sposta a Londra sul tavolo della Nato, dove le polemiche sono sempre più accese e le posizioni, come abbiamo visto, sempre più distanti. Che farà l’Italia? Il ministro della Difesa, il renziano Lorenzo Guerini ha già dichiarato che il Paese non potrà spendere per le Forze Armate il 2 per cento del Pil entro il 2024 come richiesto dalla Nato e che invece si sta muovendo per «realizzare un piano graduale d’investimenti per l’efficienza del nostro strumento militare». Pertanto il vertice di Londra costituisce un altro momento fondamentale nel processo evolutivo della Nato che celebra l’anniversario dei 70 anni. Nell’attuale contesto euro-atlantico, nel quale l’Italia fatica a difendere i suoi legittimi spazi, solo nell’Alleanza atlantica può ritrovare lo snodo per promuovere più efficacemente i propri interessi nazionali. Ma occorre far sentire forte la nostra voce e avere una politica estera chiara e lineare (soprattutto sulla Libia), cosa oggi difficile in un governo spaccato e pronto a litigare su tutto.