Tutti gli occhi della politica internazionale puntati sulla Turchia dove la posta in gioco è molto alta per gli equilibri non solo del Medio Oriente, ma dell’Europa e della sfera occidentale. Dal prossimo governo di Ankara dipenderanno le future decisioni su diversi tavoli: guerra in Ucraina; gestione dei flussi migratori in crescendo dall’Afghanistan ed esplosivi nei campi profughi dei siriani; strategie della Nato dove la Turchia rappresenta la seconda potenza militare in grado di mettere veti sulle posizioni dell’Alleanza, tra cui l’ingresso della Svezia accusata di essere filocurda; infine i rapporti con l’Unione Europea giustamente intransigente sui temi di principio, a partire dai diritti umani e dalla negazione del genocidio degli armeni. Dunque il risultato del prossimo 28 maggio al ballottaggio per l’elezione presidenziale non è un solo fatto interno che comunque riguarda un grande e popoloso Paese di 85 milioni di abitanti, ma tocca da vicino gli interessi globali dell’Europa.
Il voto di domenica scorsa ha confermato la forza del “sultano” Erdogan che, seppure i sondaggi degli ultimi giorni lo davano in netto svantaggio, al momento delle urne ha dimostrato di essere ancora in sella. Traballante, è vero, ma capace di sette vite. Quindi in grado di confermare la sua ventennale guida per un altro mandato.
Il quadro del voto di domenica lascia aperta ogni conclusione. Riassumiamo. Erdogan ha ottenuto il 49,5% sfiorando il successo al primo turno, contro i pronostici della vigilia, mentre il principale candidato dei partiti di opposizione Kemal Kilicdaroglu, che i sondaggi davano per possibile vincitore, ha ottenuto il 45% delle preferenze.
Leader del Partito Popolare Repubblicano (Chp) il partito di Atatürk, che ha fondato la Turchia dopo il crollo dell’Impero Ottomano cent’anni fa, è chiamato il “Gandhi turco” per una certa somiglianza fisica con il Mahatma, ma anche per i suoi modi pacati. Dal 2010 ha collezionato ben nove sconfitte contro Erdogan, ma ora pensa che sia giunto il suo momento e di poter ripristinare lo stato di diritto in Turchia.
Il terzo votato è stato Sinan Ogan, leader dell’ATA Alliance, ultranazionalista, che ha ottenuto il 5,2% dei voti, lontanissimo dai due big, ma che sarà decisivo al ballottaggio. Nei prossimi giorni darà ai suoi elettori l’indicazione di voto, sostenendo che “non permetterà che la Turchia entri in crisi”.
Il voto di domenica ha espresso la maggioranza dell’Alleanza Popolare formata dall’AKP di Erdogan e altri partiti di estrema destra e islamisti con 322 parlamentari su 600, numero tuttavia insufficiente per poter cambiare la Costituzione, per cui sono necessari 360 deputati. I partiti della principale coalizione di opposizione hanno ottenuto, invece, 212 parlamentari, mentre l’Alleanza del Lavoro della Libertà, formata dal Partito della Sinistra Verde (YSP) di orientamento filocurdo e dal Partito dei Lavoratori di sinistra, hanno 66 deputati, di cui 62 dello YSP, che diventa il terzo partito più rappresentato nell’Assemblea. Come si vede la situazione è netta, ma nello stesso tempo molto incerta.
Il “quasi gol” di Erdogan lo ha rinvigorito dopo i toni soft degli ultimi giorni ed ora si dice convinto del successo. A confortare le sue certezze, ai vertici del Paese dal 2003, anche il tradizionale sostegno dei turchi all’estero, che nel 2018 si erano espressi per lui al 60%. Non lo hanno abbattuto le proteste per la dura repressione contro i curdi, le carceri stracolme di oppositori, il pugno di ferro per fermare le manifestazioni popolari, la libera stampa, gli intellettuali e le donne. Anzi, i toni forti ne hanno caratterizzato il programma attirando il voto dell’ultradestra.
Contro lo sfidante Kilicdaroglu, secondo diversi analisti, giocherebbe invece lo spettro della “coabitazione” tra un presidente d’opposizione con un Parlamento di nuovo apertamente favorevole a Erdogan, che al ballottaggio del 28 maggio potrebbe indurre molti indecisi a pronunciarsi per lui. Il Paese, in sostanza, chiede certezze e stabilità.