La Turchia sempre più lontana dall’Europa. La lista d’attesa per entrare nell’Ue sembra chiudersi definitivamente per Istanbul alla luce degli ultimi eventi che gettano la maschera (semmai ce ne fosse ancora bisogno) sul regime autocratico del presidente Recep Tayyip Erdogan. Giro di vite nella repressione delle opposizioni, arresti in massa, carceri strapiene con 50 mila reclusi dopo il fallito golpe di due anni fa, bavaglio alla stampa libera con severe condanne inflitte ai giornalisti delle poche voci contrarie o soltanto critiche verso il “sultano”, magistrati e tribunali totalmente asserviti al potere, anticipazione di un anno e mezzo delle prossime elezioni fissate ora per il 24 giugno in modo da chiudere la partita politica interna con il consolidamento dell’Akp (il partito del presidente).
Riguardo alla politica estera cresce il distacco con l’Europa, considerando il ruolo che si è ritagliato Erdogan nei rapporti con Mosca, compiacente e complice dell’attivismo mediterraneo di Putin che punta ad espandere l’influenza militare in Ucraina e in Siria. Un atteggiamento che preoccupa i vertici della Nato nella quale la Turchia rappresenta una importante componente militare, la seconda per uomini (410 mila unità) e mezzi (3778 carri armati e 1020 aerei) tra i Paesi alleati. Il tutto condito con l’ambiguo ricatto a Bruxelles per fermare il flusso dei migranti provenienti da Oriente dietro il compenso di tre miliardi di euro all’anno. Infine l’annosa questione del riconoscimento da parte della Turchia dello sterminio del popolo armeno, un milione e mezzo di morti nel 1915, in quel genocidio etnico e religioso che anticipò l’orrore dell’Olocausto e dei gulag di Stalin. Il governo di Instanbul non ha mai voluto accettare le istanze dell’Europa che chiedeva un passo ufficiale come condizione per ammettere la Turchia nell’Ue, perseverando nella sua posizione negazionista e giustificativa della tragedia degli armeni considerati “traditori” e “nemici”. Questo confronto non ha solo un significato storico e culturale, ma sostanziale per una visione politica europea.
A chiudere la porta dell’Ue senza più titubanze, tuttavia, è stata la recente e clamorosa sentenza del Tribunale di Istanbul che ha inflitto 13 pesanti condanne a giornalisti, collaboratori e dirigenti del quotidiano Cumhuriyet, che dal 1924 è sopravvissuto a cinque colpi di stato e ha continuato a dare notizie scomode anche sotto i regimi militari. In passato, molti dei suoi giornalisti sono stati imprigionati, torturati o vittime di assassini politici. tur.
L’attacco contro il più longevo giornale della Turchia è stato puramente politico, seppure per via giudiziaria, un assalto diretto alla libertà di stampa. È stato – come testimoniano i colleghi dell’associazione italiana “Articolo 21” che hanno seguito tutte le udienze – un processo farsa, senza prove, basato solo sulla linea editoriale di Cumhuriyet.
Colpiti il giornalista investigativo Ahmet Şık, il principale imputato, condannato a 7 anni e mezzo, l’amministratore delegato Akın Atalay (8 anni), reporter, opinionisti e il vignettista Musa Kat. Il processo è durato quasi due anni, ma la sentenza è stata pronunciata dopo meno di una mattina. Chiaro il messaggio della volontà del Tribunale di seguire le direttive governative del pugno di ferro contro la libertà di stampa in un Paese dove il 90 per cento dei giornali è schierata con Erdogan. La sentenza, che segue sei ergastoli inflitti ad altri coraggiosi giornalisti, conferma che lo Stato di diritto in Turchia è morto.
Nel contempo Erdogan ha annunciato che le elezioni previste per novembre 2019 saranno anticipate al prossimo 24 giugno. Sarà un appuntamento elettorale decisivo dal momento che in tale occasione entrerà in vigore la profonda modifica dell’assetto dello Stato in direzione di un presidenzialismo forte, voluto dall’Akp, insieme ai nazionalisti del Mhp. Nell’Europa ancora baluardo della democrazia non ci può essere posto per un sultano mascherato da presidente della repubblica.