Quando i manganelli, gli idranti, le cariche della polizia non bastano a disperdere la folla, l’arma più potente della repressione è il silenzio. Basta un click per spegnere internet, i siti, la rete di comunicazione delle opposizioni tentando così di fermare le manifestazioni popolari contro le dittature o i governi forti mascherati da presidenti eletti con votazioni-farsa. È lo “switch off” della censura digitale, quello che in un attimo tronca la più moderna forma di vita democratica e isola tutto e tutti. Espressione incruenta e invisibile nell’atto dell’azione di spegnimento delle comunicazioni, ma violenta nelle modalità di cancellare la democrazia. Spegnere di colpo internet va ben oltre limitare la navigazione online, filtrare i contenuti, controllare chi opera con un pc o uno smartphone. È il silenzio totale, rotto solo dalle “veline” ufficiali delle tv e delle radio di Stato.
Oggi l’arma più potente contro le dittature di qualsiasi genere e ideologia è l’informazione. I nemici dei presidenti di Paesi dove la democrazia è un concetto di personale interpretazione (i vari zar, caudilli, emiri e sultani sparsi tra Medio Oriente, Asia, Africa, Sud America) non sono i guerriglieri. Ma i giornalisti. Professionisti dell’informazione che lavorano per giornali e agenzie di stampa, oppure blogger che coraggiosamente tengono viva la comunicazione anche dove è impossibile far arrivare qualsiasi reporter con tesserino “press”. Pensiamo alle zone di guerra aperta, alle città bloccate dai militari, ai Paesi dove la censura di Stato è rigidissima e capillare. Le uniche voci sono quelle dei freelance solitari, nascosti nei loro rifugi da cui lanciano notizie attraverso la rete nella speranza che qualcuno dei grandi gruppi editoriali le riprenda sui siti internazionali.
Così è avvenuto in Turchia con Erdogan che, all’indomani del fallito golpe del 2016, ha fatto arrestare gran parte dei giornalisti e chiuso tutte le testate di opposizione; così in Cina dove Xi Jinping è molto attento al controllo dell’informazione usata come arma politica ed economica anti Trump. E, se vogliamo, dallo stesso presidente americano che – non potendo usare lo “switch off” come vorrebbe – ogni giorno accusa i giornalisti “nemici” di attacchi politici, fake news e critiche strumentali con lo scopo di far crollare la sua immagine e popolarità.
Ma in questi caldi mesi l’esempio più evidente lo troviamo in Bielorussia, dove Aleksandr Lukashenko a metà agosto ha spento internet e bloccato le comunicazioni mobili nel Paese. L’ultimo dittatore in Europa (rinominato presidente per la sesta volta dopo le contestate elezioni) con il silenzio mediatico generato dallo “switch” minimizza le rivolte e spegne il dissenso. Così chiude il sipario su un palcoscenico dove a quel punto può verificarsi qualunque cosa, oscurando le scene e ammutolendo ogni voce contraria. Nel contempo Lukashenko ha buon gioco nel rispondere al mondo: è lui ad accusare l’Ue e gli Usa di ingerenze in affari interi di un Paese sovrano e per di più a dichiarare la Bielorussa sotto attacco informatico, vittima di un’aggressione internazionale.
Ma Lukashenko non è l’unico ad usare l’arma del silenzio, ormai la più efficace per governare col pugno di ferro nascondendo arresti in massa e uccisioni durante le manifestazioni popolari. Per questo i reporter (quei pochi che resistono) in Bielorussia come negli altri Paesi in ebollizione politica, sono il baluardo estremo della democrazia e della libertà. Sinché anche una sola voce riesce a comunicare con l’esterno, la repressione non sarà vinta.
Come è accaduto ancora a Minsk dove militari col volto coperto hanno fatto irruzione nell’abitazione di Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la Letteratura nel 2015. Quando sono entrati per arrestarla l’hanno trovata insieme a una decina di diplomatici occidentali e se ne sono dovuti andare alla svelta, mentre lei ha potuto lanciare un appello di aiuto al mondo.