Questa è una storia esemplare, carica di significati e che, comunque si voglia leggere, costringe a un’attenta riflessione. Per intenderci, tipo quelle storie di personaggi sconosciuti ai più che sentiamo raccontare in televisione da Massimo Gramellini, cacciatore di piccoli-grandi eroi della cronaca quotidiana. I protagonisti, o meglio le protagoniste, di questa narrazione però non sono delle eroine. Tutt’altro. Sono cinque ergastolane che scontano la pena da metà degli anni ottanta nel carcere di Alta sicurezza di Latina, tetro istituto costruito in epoca fascista. Oggi un padiglione femminile ospita cinque ex brigatiste rosse. Le irriducibili che non si sono mai pentite, non hanno mai rigettato il loro passato di sangue e si ritengono ancora in lotta con lo Stato democratico che non sono riuscite ad abbattere. Si chiamano Susanna Berardi, Maria Cappello, Barbara Fabrizi, Rossella Lupo e Vincenza Vaccaro, hanno tutte una condanna all’ergastolo sulle spalle e un curriculum fatto di arresti, sparatorie, omicidi e rivendicazioni. Non parlano con nessuno che rappresenti, in qualche modo, un’istituzione. Dall’aspetto – racconta chi le ha potute vedere – sembrano tranquille signore sessantenni, qualcuna con i capelli bianchi, che cercano di curare l’aspetto e la forma fisica non trascurando qualche cenno di trucco.
Potrebbero uscire dal carcere, in semilibertà, ottenere facilmente benefici di legge o permessi temporanei con una semplice domanda, ma nessuna di loro lo fa. Ancora vagheggiano la lotta armata, inneggiano alla rivoluzione, si trincerano dietro slogan ormai sbiaditi dal tempo nonostante la stragrande maggioranza dei loro ex compagni, quelli che avevano imbracciato le armi come tanti altri di una generazione perduta, siano ormai liberi, tra pentiti, dissociati, graziati, collaboratori di giustizia.
Loro no, irriducibili sino all’ultimo. Non vogliono avere contatti con lo “Stato borghese”. Non parlano con nessuno – dicono a Latina – fanno una vita riservata scandita dagli orari del carcere. Qualche lavoretto e servizi quotidiani, letture e l’uso di un computer (non collegato in rete). Al massimo tengono rapporti con i loro familiari, vedono i figli lasciati che erano bambini per entrare nella lotta armata, qualcuna è nonna.
Su questo piccolo mondo carcerario gravano ancora inquietanti ombre come quando nel 1999, poco dopo l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona assassinato a Roma, nelle celle delle irriducibili vennero trovate le bozze di un volantino di rivendicazione, scritte in parte a mano e in parte a macchina, nascoste tra le pagine di libri e riviste. L’inchiesta si concentrò soprattutto su Maria Cappello, una figura emblematica del gruppo, coinvolta nell’assassinio del sindaco di Firenze, Lando Conti, nel 1986. L’omicidio D’Antona segnò l’esordio di sangue delle Nuove Brigate Rosse.
Il caso delle cinque irriducibili riemerge in questi giorni di commemorazione per il quarantesimo anniversario della strage di via Fani e dell’uccisione di Aldo Moro. Quasi tutti gli ex brigatisti che parteciparono al sequestro sono fuori dal carcere, godendo dei benefici di legge per pentiti e dissociati. Compaiono in televisione, appaiono su Facebook, rilasciano interviste e continuano a raccontare la loro “verità” sui fatti, nonostante le contraddizioni e gli interrogativi dei cinque processi e dell’ultima inchiesta parlamentare.
Certo, i pentiti si sono ricostruiti una vita (quella negata alle loro vittime e ai familiari distrutti per sempre dal dolore) giustificando il passato di stragi con motivazioni storiche e ideologiche, come se fossero errori di gioventù.
Le cinque irriducibili invece hanno fatto una scelta diversa, decidendo di pagare senza sconti le condanne per i loro crimini. Coerenti sino all’ultimo nel loro folle disegno rivoluzionario. Dentro quel carcere cinque “fantasmi” ricordano a chi è fuori che la storia si può mistificare, ma non cambiare. E che prima o poi la “vera verità”, oggi coperta dal segreto di Stato, verrà alla luce spazzando decenni di bugie e depistaggi.