La tragica vicenda dei desaparecidos negli anni Settanta in America Latina e in particolare in Argentina non è affatto conclusa perché a distanza di mezzo secolo dai fatti si continuano a celebrare processi contro i responsabili di quei crimini e a ricordare le vittime causate dalla feroce repressione di regimi militari. Così il 24 luglio 2021 alle porte di Orune, nella provincia di Nuoro, si è svolta in un commosso silenzio la cerimonia di intitolazione di un campetto di calcio alla memoria di due giovani emigrati morti tragicamente dall’altra parte dell’Atlantico. In Argentina, a metà degli anni Settanta. Mario Zidda, poco più che ventenne, militante in un’organizzazione di sinistra, fu catturato insieme a due compagni da una squadraccia di paramilitari e ucciso con un’esecuzione in piena regola. I giornali locali diedero risalto al fatto raccontandolo come uno scontro a fuoco tra le forze governative della dittatura militare e pericolosi terroristi. I corpi furono rinvenuti crivellati di proiettili e con le mani legate dietro la schiena. Il fratello Francesco, successivamente imprigionato e torturato, fu invece rilasciato, ma non si riprese più morendo di malattia cinque anni dopo quando non ne aveva compiuti trenta. In quel decennio l’Argentina aveva vissuto altri golpe di generali che si erano succeduti al potere dopo il breve ritorno dal lungo esilio del presidente Juan Batista Peròn, il “padre” del populismo più autentico del Sud America.
Il 24 marzo del 1976 il generale Jorge Rafael Videla si era insediato alla Casa Rosada instaurando un feroce regime appoggiato dalla Cia e dal governo di Washington che in piena “guerra fredda” temeva il diffondersi del comunismo in tutta l’America Latina. In Cile Augusto Pinochet aveva già imposto la dittatura ferrea, ma era rimasto isolato dal resto del mondo dopo l’orrore delle immagini in tv dei dissidenti imprigionati nello stadio di Santiago. Pinochet diventò il simbolo di tutte le dittature militari che avevano in mano l’intero Continente con l’eccezione di Cuba.
Il metodo della desaparición
Videla non volle commettere lo stesso errore d’immagine e soprattutto non voleva alienarsi le amicizie e gli affari con l’Europa, in particolare l’Italia democristiana, la Chiesa, la Fiat, e persino con Mosca con cui aveva ottime relazione commerciali. Così la sua giunta escogitò un metodo per imporre il terrore e il potere: la desaparición. Militari e paramilitari mascherati, ma ben riconoscibili dovevano sequestrare nella notte, rinchiudere in una delle 200 carceri clandestine aperte nel Paese, torturare e infine uccidere le vittime facendole sparire. Ed ecco i desaparecidos scaraventati dagli aerei nell’Oceano o sepolti in fosse comuni.
Alla fine, quando nel 1983 cadrà la dittatura, si conteranno almeno 30 mila scomparsi, tra cui 500 cittadini con passaporto italiano e tra questi una decina di sardi. Un bilancio ben più pesante dei tremila desaparecidos cileni, in una statistica dell’orrore dove i numeri spiegano solo l’ampiezza del massacro e non il singolo crimine. Chi furono le vittime del “genocidio” di un’intera generazione? Il metodo fu pianificato dagli stessi generali che diedero precise disposizioni documentate nei vari processi: prima gli oppositori dichiarati, i sindacalisti e i politici di sinistra, poi giornalisti, avvocati, intellettuali, insegnanti e studenti, persino i sacerdoti, e via via tutti coloro anche solo sospettati di essere potenziali dissidenti. Di loro non si doveva sapere più niente, come non fossero mai esistiti. Così fu sequestrato Martino Mastinu di Tresnuraghes, detto El Tano (l’italiano), leader sindacale dei cantieri navali di Tigre, scomparso nel 1976. Si vedano i post in questo sito dedicato ai sardi desaparecidos.
I fratelli Zidda di Orune
I fratelli Zidda, nati a Orune, ed emigrati bambini con la famiglia ai primi anni 50, appartenevano al movimento di sinistra dei Montoneros. Mario era studente e Francesco operaio, impegnati nel sociale e vicini ai poveri dei quartieri popolari, ricchi di ideali per un mondo migliore, con il coraggio e l’incoscienza dei giovani pronti anche alla lotta armata. La loro vicenda si inquadra in quel contesto storico tra il golpe di Pinochet in Cile e la presa di potere di Videla in Argentina, dove la pratica della desaparición fu adottata su larga scala. Una storia che non è finita perché dagli inizi di questo secolo si sono aperti in quei Paesi e anche in Italia diversi processi contro gli ideatori e gli autori di quei massacri. Ed ecco l’attualità di ricordare anche i fratelli Zidda e con loro tutti i sardi vittime della desaparición.
Sul tema dei sardi in Argentina un ampio articolo è stato pubblicato nel gennaio 2006 sul Messaggero Sardo (in questo sito il link della pagina ).
I processi in Italia
L’Italia dal primo processo di Roma (aperto nel 1997) che portò nel 2004 alle condanne definitive dei militari argentini per l’uccisione dei sardi Martino Mastinu e del cognato Mario Bonarino Marras ha avviato e concluso un’altra decina di processi. L’ ultima sentenza della Cassazione è del 7 luglio scorso quando i giudici italiani hanno condannato all’ergastolo 14 tra militari e gerarchi dei regimi cileni e uruguaiani che nell’ambito del “Plano Condor”, fecero uccidere 47 cittadini italiani. Ora il governo dovrà chiedere l’estradizione dei condannati, molti ormai anziani e altri irreperibili. Probabile che non sconteranno mai la pena come difficile arrestare tre di costoro che da tempo si erano nascosti proprio in Italia e si fanno beffe dei giornalisti che vanno a cercarli. Si tratta di un ex sottufficiale della Marina uruguaiana, Jorge Nestor Troccoli, e di un tenente argentino, Carlos Luis Malatto, entrambi accusati di uccisioni e torture. E di un ex cappellano militare, don Franco Reverberi, che assisteva agli interrogatori dei prigionieri e che oggi continua a celebrare messa a Sorbolo, comune di Parma. Si sentono ancora nel giusto e innocenti perché avevano fatto il loro dovere. La storia però la fanno gli storici con i documenti e le sentenze con le prove. Così dopo mezzo secolo è stato importante ricordare anche nel loro paese i fratelli Zidda perché quella immane tragedia non si è mai chiusa.
Sui processi in Italia e in Argentina c’è tutto sul sito 24 marzo, curato dall’omonima Onlus, di cui è animatore l’operatore culturale Jorge Ithurburu che da trent’anni si occupa di questa vicenda coordinando il lavoro delle istituzioni (Ministeri, Ambasciate, Regioni), della magistratura e dei legali di parte civile, oltre a tenere i contatti con i familiari e i testimoni:.
La cerimonia ad Orune
Ed ecco sabato 24 luglio 2021, mentre l’attenzione di tutti e dei media era concentrata sui devastanti incendi che stavamo divampando nell’Oristanese, in un angolo della Barbagia si è svolta una toccante cerimonia, quasi in silenzio, con la partecipazione di compaesani, qualche lontano parente e amici. Organizzatrice dell’evento la prof.ssa Giuliana Pittalis, consigliera comunale, antropologa e insegnante, appassionata di folclore e animatrice di manifestazioni culturali, che ha voluto onorare la memoria dei suoi compaesani emigrati e scomparsi lontano dalla loro terra. La notizia è stata data dall‘Unione Sarda domenica 25 con un articolo a firma di Mariangela Dui e sulla Nuova Sardegna in una cronaca di Paqujto Farina (uscito il 27).
«È stato inaugurato ad Orune il nuovo campetto di calcio, intitolato a Mario e Francesco Zidda, i due fratelli vittime negli anni ’70 della dittatura in Argentina» scrive Farina riassumendo nel pezzo i momenti toccanti della cerimonia e la biografia dei Zidda, così come è stata ricostruita con passione dalla nipote Grazia Manca che ha realizzato una tesina sulla vicenda. «La cerimonia – sottolinea l’articolo – si è svolta alla presenza dei familiari, tra cui i nipoti Leonardo Tolu e Grazia Manca che con gli amministratori hanno apposto la targa commemorativa…
La storia dei fratelli Zidda è stata ripercorsa durante i lavori che sono stati aperti dalla consigliera comunale Giuliana Pittalis. A nome della Giunta comunale sono intervenute la vicesindaca Giovanna Porcu e l’assessora Maria Rosaria Chessa. Il giornalista Tonio Pillonca (capo della redazione di Lanusei dell’Unione Sarda) ha coordinato gli interventi di Carlo Figari, quello molto commovente di Grazia Manca e di Ciriaco Davoli. Presente alla cerimonia anche il consigliere regionale di Orune, Giuseppe Talanas. Con la lettura di una poesia dedicata ai fratelli Zidda, ha chiuso la serata il poeta Mario Cherchi.
La storia dei Zidda
Mario e Francesco – così come racconta Grazia Manca nel suo intervento – appartenevano ad una famiglia di emigrati, figli di Giovanni e Angelica Chessa. È nel 1951 che Giovanni Zidda decide di recarsi in Argentina dove già da tempo risiedevano dei parenti. Il suo primo lavoro lo impegna come operaio in una cava di pietre, dandogli una certa stabilità economica. La famiglia lo raggiunge nel 1954 e si stabilisce prima a Mar del Plata e in seguito a Buones Aires. I suoi tre figli, Francesco, Sebastiana e Mario svolgono gli studi nelle scuole locali. Mario in particolare si distingue subito e, con il sopranome “El Tano”, l’Italiano, diventa delegato sindacale in una importante fabbrica metalmeccanica, sposando da giovanissimo le idee della sinistra estrema.
Fu proprio durante una riunione del sindacato che, nel 1974 a soli 23 anni, viene prelevato dalla polizia insieme ad altri due studenti argentini. Imprigionato, subisce la tortura e in seguito viene fucilato. Non trascorre molto tempo dalla morte di Mario che anche Francesco viene prelevato dalla propria abitazione di Buenos Aires, incarcerato e tenuto prigioniero per diversi giorni. In seguito rilasciato, muore, anche lui giovanissimo, per un sarcoma nel 1977, a soli 29 anni.
La testimonianza di Maria Delogu
L’evento di Orune ha consentito di aggiungere nuovi particolari sulla biografia dei fratelli Zidda, già citati in un capitolo del libro “El Tano/ Desaparecidos italiani in Argentina”, Carlo Figari, seconda edizione 2004 dopo la sentenza della Cassazione per il processo Marras-Mastinu. Si veda il link del volume
Il volume raccoglie le storie dei cittadini di origine sarda protagonisti nel processo di Roma o di cui è stato possibile raccogliere testimonianza. Un intero capitolo è dedicato ai fratelli Zidda (pagg. 126-133). Si basa sulla testimonianza diretta, raccolta dall’autore durante un viaggio in Argentina nel febbraio 1998, di Maria Delogu, compaesana e cugina dei Zidda. La famiglia emigrò da Orune nel 1949 e lei nacque in Argentina dove ha studiato, si è sposata e per molti anni è stata un punto di riferimento degli emigrati sardi a Mar del Plata dove risiedeva. Tra i venti e i trent’anni svolse un ruolo importante nel movimento locale dei Montoneros e degli oppositori. Nel 1998 aveva lasciato da tempo l’attività politica, ma non ha dimenticato niente, né soprattutto ha rinnegato il suo passato di militante guerrigliera. Nel suo racconto ricostruisce il doloroso ricordo degli anni feroci della repressione, le vicende di Mario e Francesco. Rimandiamo al libro per i particolari della testimonianza.
Riguardo a Mario sottolinea che «era un ragazzone aperto, allegro, buonissimo… Si era buttato in politica con grande generosità… Lui era istintivamente trotzkista. Ma quei gruppi avevano un grado di conoscenza di tipo gramsciano pur senza aver mai letto niente delle sue opere. L’ho capito dopo quando ho potuto documentarmi e studiare un po’ della storia di Antonio Gramsci. Ma qui in Argentina la sinistra non ha mai avuto la capacità di unirsi e di fare un vero e grande partito comunista… Mario era un militante del PST, Partito socialista dei lavoratori, un gruppuscolo che seguiva la linea politica di Alfredo Palacios, un leader molto noto… Mario e suoi compagni erano delegati di base di un’importante ditta metalmeccanica, ma non rispondevano alla direzione sindacale legata alla Confederazione (Cgt) di orientamento peronista… Mario svolgeva attività clandestina e con i compagni pubblicava anche un giornale… Non si poteva considerare un leader, un capo sindacale… Parlava, discuteva di politica oinsiee ai compagni di lavoro Un po’ come tutti, ma non era certo uno che potete mobilitare le masse… Sicuramente era schedato, lo conoscevano, c’era sempre qualcuno che ti seguiva e spiava… Non so se si rendesse conto, se avesse coscienza, che era una guerra vera e non un gioco….».
Maria Delogu che all’epoca della testimonianza aveva 49 anni, alla fine e con fatica si aprì al giornalista arrivato dall’Italia per raccogliere la voce dei familiari e di chi aveva vissuto quella tragica pagina di storia nei luoghi dove si svolsero i fatti. Non fu facile convincerla a parlare, un ricordo troppo lacerante: «Non posso dimenticare tutto ciò che comporta una guerra civile non dichiarata per poter sequestrare senza processo, senza investigazione, senza legalità. E allora mi chiedo perché la storia si ripete con i massacri di innocenti? Il tempo è passato, ma il ricordo non mi lascerà mai», così concluse il suo racconto.