Qui ripercorriamo i passi più significativi dell’articolo uscito giovedì 13 giugno 1963 sul Corriere, con i temi evidenziati dai nostri titolini e in corsivo il nostro testo.
Nel volume l’articolo compare nel paragrafo 3: “Il Piano di rinascita” (da pag. 901).
——————————–
Titolo:
Strano gioco delle parti tra Stato e Regione in Sardegna
Sommario:
Solamente un dialogo più ordinato fra Cagliari e Roma potrebbe colmare certe gravi lacune e contraddizioni – Il piano della rinascita deve avere carattere veramente aggiuntivo e non sostitutivo delle spese ordinarie
Seicento miliardi per il Piano di Rinascita
Dal ’50 ad oggi lo Stato ha speso in Sardegna qualcosa che oscilla sui seicento miliardi. Non si può dire che li abbia buttati al vento. Nello stesso spazio di tempo la produzione agricola è più che raddoppiata. Il reddito pro capite è aumentato del trenta per cento. La disoccupazione effettiva non supera le diecimila unità. L’industrializzazione ha preso l’avvio. Dei risultati insomma ci sono.
Ma c’è da chiedersi se non se ne sarebbero raggiunti di migliori e più decisivi, se si fosse agito in maniera un po’ più ordinata. Gl’interventi sono stati arruffati, discontinui e talvolta concorrenziali.
Il ruolo positivo della Cassa del Mezzogiorno
Lo strumento principale è stata la Cassa del Mezzogiorno, che qui ha operato molto bene e con grande serietà in tutti i settori. Le faraoniche dighe sul Flumendosa sono merito suo. Dei duecento miliardi che la Cassa ha investito in Sardegna, non ho visto nulla, o quasi nulla, che si presti a critiche. Si capisce solo ch’è mancato un certo coordinamento, una rigorosa scala di priorità.
E a questa carenza si deve lo squilibrio fra le troppe cose iniziate e le troppo poche concluse. Ma di ciò non ha colpa la Cassa. Ne ha colpa la mancanza di un organico «piano».
Ritardi, mancanza programmazione e sprechi
Eppure, questo «piano» era stato previsto nello stesso Statuto del ’48, che istituiva la Regione. Esso dice all’articolo 13: «Lo Stato, col concorso della Regione, dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’isola». Questo solenne impegno fu preso la bellezza di quindici anni fa. E, se si fosse attuato subito, ora avremmo sotto gli occhi il primo esempio di «programmazione» su scala regionale. Invece si è trascinato per anni, e sotto gli occhi ci mette la prova del disordine, della confusione e degli sprechi, in cui queste programmazioni sono destinate a gettare il Paese. Perciò vale la pena parlarne.
Montanelli ricostruisce la storia del Piano
Anzitutto, s’impiegò due anni a decidere chi doveva cominciare, come e da che parte. Solo nel ’51 si riuscì a mettere in piedi una «Commissione di studio» che dovette rifarsi da capo perché tutto mancava, compresa una carta geologica dell’isola. Nel 1878 (ripeto: nel 1878) Quintino Sella se n’era accorto e aveva dichiarato «urgente» compilarne una, visto che la Sardegna è la regione italiana di più promettenti risorse estrattive. Ma dopo settant’anni l’urgenza era rimasta inutilmente tale: solo le società minerarie avevano fatto qualcosa, ma ognuna – s’intende – limitatamente al proprio settore.
Con queste lacune, non c’è da stupirsi che la Commissione abbia impiegato altri tre anni per mettere insieme i dati necessari. Ne risultarono centocinquanta monografie, dentro le quali solo uno speleologo può calarsi con qualche speranza di raccapezzarcisi.
Quindi rinunzio a trascinarvi il lettore, e salto senz’altro alle conclusioni del «Rapporto» che nel ’58 venne consegnato al ministro Pastore e nel ’59 pubblicato in tre volumi dalla Regione. Si chiedevano, da ripartire in dieci annualità, ottocentosessanta miliardi: di cui quasi seicento per i trasporti, settantacinque per l’industria, ecc. Il «Rapporto» però aggiungeva, con incoraggiante ottimismo, che di questo massiccio investimento bastava che lo Stato si accollasse la metà: il resto lo avrebbero certamente portato in Sardegna i privati, richiamativi dalle «infrastrutture» e dalle facilitazioni che avrebbero reso l’ambiente ricettivo alle iniziative. […]
Nel 1961 via al Piano targato DC, alla vigilia elettorale
Il ministro Giulio Pastore diede in revisione il «Rapporto» a un’altra commissione, comunemente nota come «Gruppo di lavoro», che in capo a tre mesi ne disfece e ne rifece le conclusioni. Perché tanta fretta dopo quegli undici anni di ruminazione? Perché nel ’61 c’erano le elezioni regionali e la D.C. voleva presentarvisi, per mantenere le sue posizioni di potere, come il «partito della rinascita». Non so se la Camera fece in tempo a leggere le proposte del «Gruppo». Comunque, fece in tempo ad approvarle prima che in Sardegna si aprissero le urne. E così il Piano di rinascita della Sardegna assolse il suo principale compito; che non è tanto quello di far rinascere la Sardegna, quanto di mantenervi al potere la D.C.
I partiti di opposizione non svolsero un ruolo incisivo
Ma se questo fu il discutibile atteggiamento del partito di maggioranza, non meno discutibile fu quello dei partiti di opposizione. I quali risposero non con una critica al piano per l’impostazione che dava dei problemi e i mezzi che indicava per risolverli, ma mobilitando demagogicamente le passioni isolane contro quello che essi definiscono un attentato allo spirito dell’autonomia e alle prerogative della Regione.
Il pretesto alla polemica, tuttora viva nell’isola, lo forniva quel famoso articolo 13 che, in tono con l’ambiguità di tutte le norme italiane, stabiliva che il Piano doveva essere «predisposto dallo Stato col concorso della Regione».
A cosa si riduceva, chiedevano gli oppositori indignati, questo «concorso»?
Lo Stato aveva fatto tutto per conto suo. Si era fatto il progetto, se l’era approvato, e ora si preparava a realizzarlo. Il «concorso» della Regione era solo la platonica presenza del presidente della Giunta, ma senza sostanziali poteri d’iniziativa e di veto, nel comitato dei ministri per il Mezzogiorno, supremo organo deliberativo. Questa non era più autonomia. Questa non era più democrazia. Questo era soltanto uno schiaffo alla dignità dei sardi, un disconoscimento del loro diritto di fare da sé. Eccetera. […]
Che succederà nelle future Regioni a statuto ordinario?
Gli strascichi che ho raccolto di questa rissa, in cui risuonano accenti addirittura castristi, m’induce a chiedermi cosa succederà nel nostro Paese quando le Regioni saranno venti, ognuna in funzione più o meno elettorale, e ognuna con l’ambizione di realizzarlo coi soldi, sì, dello Stato, ma di testa propria. Sarà un tam-tam da rompere i timpani. E speriamo che si rompano solo quelli. […]
Il rapporto malato tra Stato e Casmez
Quanto ho visto mesi fa nel Mezzogiorno mi rende estremamente scettico. Al grido di «Tanto c’è la “cassa” che provvede», i nostri bravi ministeri si sono disinteressati di quelle regioni, come di terre ormai sottratte alla loro giurisdizione. Non è che abbiano cercato con la «cassa» un’intesa e una collaborazione in modo da dividersi i compiti e da coordinarli ai fini dell’interesse collettivo. Non è che abbiano detto: «Questo è intervento ordinario: e lo faccio io, ministero. E questo è un intervento straordinario: e lo fai tu, “cassa”». Non c’è stato verso di creare questo fair play. Quando è andata bene, là dov’è intervenuta la «cassa», i ministeri hanno cessato d’intervenire. E quando è andata male, sono intervenuti solo per ostacolare la «cassa» con quel malinteso spirito di corpo che fa della nostra burocrazia un avanzo medievale di chiuse baronie in anarchica lotta le une con le altre.
Non vorremmo che, al grido di «Tanto, c’è il Piano che provvede», qualcosa di simile si ripetesse in Sardegna.
Trasporti marittimi scandalosi
E lo diciamo perché ci è parso di cogliere qualche sintomo sul problema, per esempio, dei trasporti. Come ho detto, lo Stato sinora ha speso nell’isola, d’interventi straordinari, oltre seicento miliardi. E si prepara a spenderne, sempre d’interventi straordinari, altri quattrocento nei prossimi dodici anni. Ma non riesce a trovarne trenta o quaranta per un intervento ordinario sui porti e sulle linee di comunicazione marittima, il cui scandaloso disservizio rappresenta la più catastrofica strozzatura della vita sarda.
La Sardegna non ha che quattro porti: Olbia, Porto Torres, Sant’ Antioco e Cagliari. Solo l’ultimo ha una certa attrezzatura. Gli altri sono inceppati da fondali troppo poco profondi, da insufficienza di banchine e di gru. Una larga zona di quello di Porto Torres è rimasta per quattordici anni ostruita al traffico per via di una diatriba fra un armatore locale e la Marina Militare. Oggetto: a chi spettasse rimuovere una chiatta di proprietà dell’armatore, ma messa lì al tempo della guerra su ingiunzione della Marina.
Il monopolio della Tirrenia
Le linee sono gestite monopolisticamente dalla «Tirrenia» che appartiene alla Finmare che appartiene all’I.R.I. che appartiene allo Stato. Gli scarsi e lenti piroscafi non possono partire né attraccare.
A Genova, a Civitavecchia, a Olbia ci sono stati tumulti fra masse di viaggiatori lasciati a terra con regolare biglietto in tasca. Si sono istituite, per sovvenire ai bisogni, due navi-traghetto. Ma sono perennemente in cantiere per riparazioni. Negl’inospitali porti sardi s’infortunano sbattendo ogni poco contro qualcosa.
Le merci: costi insostenibili
Ma peggio ancora è per le merci. La Sardegna ne importa ogni anno per duecentoventi miliardi di lire, ne esporta per ottanta. Ma sentite cosa succede. Dieci tonnellate di carciofi da Catania a Genova pagano di trasporto cinquantaseimila lire. Da Sassari a Genova, cioè per un percorso dimezzato, ne pagano centotrentamila. E mentre i carciofi di Catania sono sicuri di trovare un treno che li carichi, quelli di Sassari non sono affatto certi di trovare un piroscafo, e spesso vengono svenduti a una lira l’uno sulle banchine di Porto Torres. Solo per spese di imbarco e di sbarco, il prezzo delle merci sarde subisce una maggiorazione del quindici per cento. Non possono competere su nessun mercato.
Piani straordinari invece di ordinario dovere
Viene da chiedersi se, prima di mettere al fuoco dei piani così grandiosi e di decidere stanziamenti di centinaia di miliardi per interventi straordinari, lo Stato non avrebbe fatto meglio a compiere il suo ordinario dovere nei confronti dei porti sardi e dei servizi marittimi. Quando la Sardegna avrà bene prodotto il triplo di quanto produce, dove e come lo esporterà? […]
Da Piano aggiuntivo a Piano sostitutivo!
Come vedete, il timore che da «aggiuntivo» il Piano diventi «sostitutivo» non è infondato. E mi conferma nell’opinione che le Regioni possono funzionare solo negli Stati che funzionano, cioè là dove c’è un potere centrale a fare da interlocutore. In Italia l’interlocutore e il giuoco delle parti ne risulta sovvertito. Qui in Sardegna io non capisco più dove finisce lo Stato e comincia la Regione, e viceversa. Vedo soltanto che ci sono delle lacune paurose, delle contraddizioni paradossali. L’unica cosa che non vedo è un dialogo fra Cagliari e Roma per porvi rimedio.
Nel volume Sansoni alla fine si aggiunge una nota conclusiva:
Le cifre di questo scritto si riferiscono al 1963. Ma i termini del problema sono rimasti immutati.