La strage delle Fosse Ardeatine viene ricordata solennemente ogni anno, il 24 marzo. Ricorre in questo 2020 il 76mo anniversario, che si commemora per la prima volta senza folla e il commosso rituale di sempre, nel clima surreale creato dall’emergenza del coronavirus che blocca ogni manifestazione pubblica. Ma la micidiale pandemia che sta tenendo il mondo in ostaggio è proprio l’occasione per una riflessione generale sulle sorti dell’umanità, in balìa degli eventi naturali, delle malattie e delle guerre volute dall’uomo. Con tutte le tragiche conseguenze per le vittime e per i familiari. Ed ecco che l’uscita di un’opera quale il Dizionario delle 335 biografie, porta ad un approfondimento della storia di quei terribili eventi dell’ultima guerra, ricostruendo la memoria di quegli uomini, tra cui numerosi giovanissimi, sacrificati in una strage comprensibile solo se inquadrata in quel clima di terrore imposto dai nazifascisti nella capitale.
Quella carneficina nelle cave alla periferia di Roma nel 1944 non fu l’unica e neppure l’ultima perpetrata dai nazisti durante l’occupazione militare della capitale dopo l’armistizio dell’8 settembre. Ma più di tutte ha colpito la coscienza collettiva di un’intera nazione perché avvenuta nel luogo che rappresenta l’Italia. E così è diventata il simbolo della lotta civile e militare contro il nazifascismo.
Le 335 vittime, barbaramente uccise dai tedeschi per rappresaglia dopo l’attentato di via Rasella in cui morirono 33 soldati ad opera di un gruppo dei Gap comunisti, non erano solo militari e partigiani. Nella lista compilata dal maggiore delle SS Kappler vennero inclusi uomini considerati pericolosi per la loro attività politica, 76 ebrei ed anche persone estranee alla Resistenza, in parte arrestate durante il rastrellamento di via Rasella, e altre già recluse nel braccio tedesco del carcere di Regina Coeli e nelle celle di via Tasso. In totale 270.
Le 50 vittime mancanti (a cui vennero aggiunti altri dieci nomi per la morte di un ferito) furono richieste alla polizia italiana il cui elenco, compilato dal famigerato torturatore Pietro Koch e dal questore di Roma Pietro Caruso, comprendeva diversi militari e militanti della Resistenza, in particolare azionisti. Quando ci fu la riesumazione dei cadaveri risultarono cinque morti in più, forse per errore.
Il Dizionario delle 335 biografie
Tra le vittime anche nove sardi di cui conosciamo le biografie grazie ai libri di Martino Contu, storico di Villacidro, che da vent’anni scava nei documenti sulla strage. A breve uscirà il primo di una serie di volumi del “Dizionario” con le biografie di tutti i 335 morti. Un meritevole e prezioso lavoro a cui Contu, insieme ad altri ricercatori, sta portando avanti sulla base dell’archivio ritrovato di recente a Macerata, del prof. Attilio Ascarelli, il medico legale che esumò e identificò le salme dei martiri ardeatini.
Il ricordo dei nove sardi uccisi nelle cave
Oggi è doveroso ricordare il sacrificio di quei sardi. Quattro erano militari. Il carabiniere Candido Manca di Dolianova, il 25 luglio del 1943 aveva partecipato all’operazione di arresto di Mussolini. Nella Resistenza faceva parte della banda del generale Filippo Causo in cui militava anche il brigadiere Gerardo Sergi di Portoscuso. Entrambi traditi da una spia e catturati,.entrambi insigniti di medaglia d’oro al valore. Il sergente pilota Pasqualino Cocco di Sedilo fu arrestato perché si era rifiutato di arruolarsi nel battaglione” Angioy” di volontari sardi che Francesco Barracu, neo sottosegretario di Mussolini, cercava di formare per inviare al Nord. Aveva 24 anni. Dal pilota di aerei al sottotenente di Marina, il carlofortino Agostino Napoleone, valoroso comandate di motosiluranti, giunto nella capitale insieme ad altri due ufficiali per unirsi ai partigiani. Tutti e tre, catturati per una delazione, finirono nella lista di Kappler.
E poi cinque civili. L’ufficiale postale Gavino Luna, nome d’arte De Lunas, detto “l’usignolo di Padria”, interprete originale del canto sardo. Reduce della Grande guerra dove era stato ferito, a Roma aveva aderito al partito d’Azione con Emilio Lussu. Anche il latinista e docente Salvatore Canalis, di Tula, e l’avvocato Giuseppe Medas di Narbolia avevano aderito agli azionisti ed erano finiti a Regina Coeli. Con loro si ritrovò in cella Antonio Ignazio Piras, contadino di Lotzorai, di 65 anni, veterano della Grande guerra.
Un vero personaggio fu il nono sardo della tragica lista: Sisinnio Mocci, rivoluzionario comunista con una vita avventurosa di emigrato in Belgio, Francia, Argentina e di combattente in Spagna nella Brigata Garibaldi. A Roma era considerato uno dei capi della Resistenza nel quartiere Salario dove, fingendosi il maggiordomo, fu nascosto nella villa del regista Luchino Visconti prima di venire catturato.
Non rappresaglia, ma sacrificio di vittime
Oggi si discute ancora se si sarebbe potuto evitare l’attentato evitando di conseguenza la sanguinosa rappresaglia. I giudici in diversi processi intentati dai familiari hanno prosciolto i gappisti sostenendo che si trattava pur sempre di un atto di guerra. Le sentenze sono una cosa, le scelte morali e politiche un’altra. Non è detto che le une o le altre coincidano con la verità storica, non sempre dimostrabile nella sua interezza.
Una cosa è però certa. Nell’Italia occupata dai nazisti, i tedeschi compirono numerose stragi, anche senza essere stati oggetto di preliminari attacchi partigiani. La mattina del 16 ottobre del 1943, le SS rastrellarono dal ghetto di Roma oltre mille ebrei. Due giorni dopo furono deportati ad Auschwitz dove perirono quasi tutti. Cosa avevano fatto contro il Reich? Altri 76 ebrei perirono alle Fosse Ardeatine. Che cosa centrano con Via Rasella? Avevano svolto lotta armata contro i nazisti? Sì, qualcuno era partigiano. E tutti gli altri? Niente. Il tema vero, come sostiene nei suoi studi Martino Contu, è che la strage delle Fosse Ardeatine si inserisce nel quadro delle atrocità, divenute modus operandi, del nazismo contro i più deboli, gli oppositori politici e contro gli ebrei.
Chi oggi riporta il discorso sulle responsabilità dei partigiani viene tacciato di revisionismo. Ma su questo punto la maggior parte degli storici condivide l’opinione del prof. Ascarelli il quale, nel primo anniversario del massacro, disse: «Non si può parlare di rappresaglia di guerra perché i fatti del 23 marzo ne furono il pretesto non la causa. L’eccidio fu freddamente disposto e premeditato da comandi responsabili, si abbatté su individui estranei ai fatti antecedenti, tutti innocenti. Fu un sacrificio di vittime, non l’esecuzione di ostaggi».