Qui ripercorriamo i passi più significativi della settima e ultima puntata del reportage sul Corriere, con i temi evidenziati dai nostri titolini. L’articolo è uscito domenica 16 giugno 1963.
L’articolo appare nel volume nel paragrafo 7 “Presente e futuro”, (da pag. 924).
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Titolo:
Ora la Sardegna cammina
Sommario:
In ogni centro abitato sono finalmente arrivate la luce e l’acqua; cade in pezzi la vecchia economia basata sulle piccole autarchie familiari; circolano merci e idee – Il pericolo è quello di perdere di vista i termini concreti dei nuovi problemi, per la tendenza a politicizzare tutto
Non vorrei, con le mie critiche, aver suggerito un’opinione negativa della Sardegna e del suo sviluppo. Il progresso dell’isola è innegabile, e lo si coglie a occhio nudo. Le strade non sono più piste nel deserto.
Sviluppo e modernità in forte crescita: il ruolo della tv
In dieci anni le automobili sono cresciute da tremila a oltre quarantamila, le campagne che attraversano stanno perdendo la solitaria solennità di una volta, si animano di uomini, di case, e anche di alberi. In tutti i centri abitati sono arrivate la luce e l’acqua. Vi è arrivata in massa la televisione: in un quinquennio gli abbonati sono passati da sette a sessantamila. Gli analfabeti sono ridotti a un dieci per cento. La vita dell’isola si sta liberando della sua millenaria sclerosi. Cade in pezzi tutta un’economia basata sulle piccole autarchie familiari e sulla compressione dei consumi. Circolano le merci. Circolano le idee.
La scoperta della ricchezza
I sardi, che non ne avevano mai sentiti, cominciano ad avere dei bisogni. Non si contentano più di vivere e di morire come sono nati. Stanno scoprendo che il denaro non è la ricchezza, ma solo lo strumento della ricchezza. E comprano. Comprano anche il superfluo. Un abile piazzista di elettrodomestici è riuscito a vendere dei magnetofoni a dei poveri contadini di Dorgali. Il volume delle importazioni dal continente cresce, malgrado la difficoltà e il costo dei trasporti.
Cresce sproporzionatamente al volume delle esportazioni, aggravando lo squilibrio della bilancia commerciale dell’isola. Non importa: lo sviluppo è condizionato da questa prima fase, solo apparentemente negativa. Ma tutto questo è avvenuto in maniera così subitanea e tumultuosa, dopo una stasi di secoli, da assumere aspetti rivoluzionari e porre problemi che sarebbe estremamente pericoloso evadere.
L’esodo non dall’Isola, ma dai campi e dalla solitudine
La nostra critica è rivolta solo alle domande che non ci si pone, e alle misure che non si prendono (o che si prendono in direzioni che non ci persuadono). Il primo di questi problemi è l’esodo, che sembra aver colto di contropiede la classe dirigente sarda.
Effettivamente era difficile prevedere che assumesse le massicce proporzioni che ha assunto negli ultimi tre anni. Le strutture sarde sembravano tali da poter sfidare qualunque forza centrifuga. Non la malaria, non le carestie erano mai riuscite a crearvene. Il sardo preferiva morire dov’era nato che andare a vivere altrove. Ha retto a tutto. Non ha retto alla televisione. Voglio dire: non ha retto all’urto del mondo moderno che attraverso la televisione gli è entrato in casa con tutti i suoi adescamenti.
Tuttavia bisogna intenderci su questo esodo. Esso non è, almeno nelle intenzioni, una fuga dalla Sardegna. È una fuga dalla pastorizia e dall’agricoltura, di cui molti paesi sardi esclusivamente vivono. Ancora oggi i sardi lasciano malvolentieri la loro isola. Quella che abbandonano è la vita dei campi, la solitudine, la stagnazione dei villaggi, la mancanza di prospettive. E infatti è dall’interno che emigrano. Dalle città, ben pochi. […]
Perché l’esodo dalle campagne non si trasformasse in una emorragia dalla Sardegna sarebbe occorso un più rapido sviluppo della industrializzazione. Nell’isola ce n’è ancora abbastanza per accogliere questi profughi della pastorizia e dell’agricoltura: ecco l’errore di calcolo che salta agli occhi. E questo errore non è per difetto, ma per eccesso di «piano»: cioè perché si sono persi quindici anni a discuterne i termini dottrinali e astratti, quando c’erano delle cose che si potevano fare subito, delle iniziative che bussavano alle porte e a cui si poteva dare l’avvio.
Burocrazia regionale ferma gli investimenti
Per esempio: al gruppo Cartiere del Timavo, che voleva impiantarsi ad Arbatax, sono occorsi tre anni di estenuanti contrattazioni con la Regione per realizzare il suo progetto. Tutti gli imprenditori continentali coi quali ho parlato sono stati unanimi nel denunziare le lungaggini e gli insabbiamenti di una burocrazia regionale che, nata appena quindici anni or sono, ha già contratto tutti i vizi di quella statale e annega nelle «pratiche». I dirigenti discutono con molta competenza di «aree» e «nuclei» industriali, di «zone omogenee» eccetera. È giusto. Senza idee, senza un programma, non si governa, non si amministra nemmeno. Ma intanto manca in Sardegna quello che anche senza idee e senza nessun programma avrebbe potuto e dovuto svilupparsi: una industria alimentare e conserviera, per esempio, una «catena del freddo».
Trasporti e monopolio Tirrenia: incapacità della Regione
Per quindici anni la Regione si è battuta a morte con Roma per strapparle l’iniziativa del «piano di rinascita» e assumerne in proprio la responsabilità. Ma non s’è battuta, o s’è battuta poco e male, per liberarsi dal monopolio strangolatore della Tirrenia che paralizza i suoi traffici e obera le sue merci di un costo di trasporto che le pone in stato di inferiorità di fronte alla concorrenza. Tutta la produzione agricola e casearia sarda è alla mercé di oligopoli continentali che la sfruttano senza scrupoli. Non mi risulta che ci siano dei tentativi per liberarsene.
I motivi di queste disfunzioni sono vari. La mancanza di esperienza, anzitutto. Nessuno può pretenderne da una classe dirigente che si va formando. E appunto per formarla si è istituita la Regione. Si può pretendere però la coscienza del difetto, e non mi pare che ce ne sia.
Il boom disordinato del turismo: il rischio di un’altra Ostia
Un esempio clamoroso lo fornisce il turismo, che in questi ultimi anni ha conosciuto un autentico boom. Bastava secondarlo e disciplinarlo. Invece tutto avviene tumultuosamente, solo in grazia d’iniziative sconnesse e dominate dalla speculazione. Ho visto vicino a Cagliari una lottizzazione che, se va avanti così, trasformerà la stupenda Baia degli Angeli in una immensa sordida Ostia. Ci sono degli alberghi che sconciano il paesaggio. Ce ne sono altri (pochi), dovuti al gusto discreto di qualche architetto intelligente, che aspettano invano l’acqua da anni promessa. Nell’aula del Consiglio sono risuonati moniti di questo tenore: «Niente soldi per l’acqua dei signori!». E questa non è inesperienza; è solo bassa demagogia.
Il turismo che preservi la natura, alt ai delitti architettonici
È curioso che in questa classe dirigente assetata di «piani» non ce ne sia uno per il turismo, la più promettente e sicura di tutte le industrie che provveda almeno a impedire la distruzione della sua materia prima: la natura, contro cui si vanno perpetrando autentici delitti architettonici.
Le colpe della Regione
E la Regione non solo non la difende, ma contribuisce al massacro coi suoi alberghi E.S.I.T., la più sciagurata cli tutte le iniziative da essa prese. A Olbia ce n’è uno, per fortuna rimasto a mezzo, al cui balcone ho vista affacciata una mucca. Questi errori e carenze sono, d’accordo, il pedaggio che bisogna pagare al noviziato. Ma all’origine c’è la deplorevole tendenza a politicizzare tutto.
Politico sinonimo di clientelismo
Ogni problema, si sa, ha un suo aspetto politico. Ma qui «politico» è spesso sinonimo di «clientelistico». Ed è uno dei grandi pericoli a cui va incontro il Piano di Rinascita, che il particolarismo sardo rischia di sbriciolare in interventi sconnessi. Ogni città vuol diventare «area industriale» o almeno «nucleo». E quando proprio non può far valere nessun requisito che ve la qualifichi, si appella a un criterio di malintesa «equità» che, se viene applicato, non può condurre che a una inutile dispersione.
Il Mezzogiorno privo di iniziative locali
Un altro difetto che mi è stato segnalato da più parti è la mancanza di coordinamento in molti settori: per esempio in quello, fondamentale, della politica creditizia. Tutto il Mezzogiorno è afflitto da questa piaga. Nel Sud continentale l’Isveimer e l’Irfis in Sicilia, nati per sollecitare l’iniziativa industriale e finanziaria, in realtà la paralizzano con le loro lungaggini burocratiche, con la loro renitenza a concedere prestiti e con la pesantezza delle garanzie che richiedono. Ora, si ha un bel predisporre «infrastrutture» e «piste di atterraggio» per le grandi «industrie di base » in arrivo dal Nord. Se intorno ad esse non nasce, per iniziativa locale, tutto un tessuto connettivo di medie e piccole industrie satelliti, il processo fallisce.
Meglio in Sardegna, grazie al Credito industriale
In Sardegna ho trovato una situazione molto migliore, cioè molto migliorata in questi ultimi tempi perché fino al ’59 era stagnante come in tutto il resto del Sud.
Il Credito Industriale Sardo o C.I.S. non aveva erogato in dieci anni che una ventina di miliardi, piuttosto sparpagliatamente e a vanvera. Poi ha avuto un colpo di barra, e si è impegnato per cento miliardi, di cui trenta già distribuiti. I suoi dirigenti hanno capito che per stimolare bisogna rischiare. L’esazione di garanzie è diventata meno esosa e le «pratiche» più sbrigative.
Ma difetta il rapporto con la Regione
Ma purtroppo manca l’intesa con l’Assessorato dell’Industria, che naturalmente al credito industriale è il più interessato e con cui la collaborazione dovrebb’essere intima. Colpa del sistema o degli uomini? Non lo so. Colpa, credo, dell’inguaribile particolarismo che affligge la Sardegna e che la rende ronzante di litigi come un alveare di api impazzite.
L’Isola è in progresso, ombre e luci della classe dirigente
Tutto questo non smentisce il promettente panorama di una isola in risoluto progresso. Vi getta soltanto delle ombre. Resterebbe da chiarire se la Regione ha contribuito più al progresso o alle ombre. È difficile dirlo. Credo che la classe dirigente sarda amministrerebbe benissimo, se si contentasse di amministrare. Ci sono in essa degli uomini capaci e probi, ma è proprio la loro presenza che ci rende scettici sull’utilità dell’istituto. Che la Regione funzioni male nella patria dei Milazzo, può anch’essere colpa soltanto dei Milazzo. Ma per suscitare dubbi anche nella terra dei Corrias, dei Melis, dei Dettori e dei Filigheddu, vuol dire che qualcosa nel suo organismo non va.
Non c’è corruzione, ma i sardi sono troppo divisi
Questo qualcosa non va ricercato nella corruzione, che non c’è. Va ricercato nella logica delle autonomie: le quali ne hanno una per conto proprio, che le conduce fatalmente a traboccare oltre i limiti. Si parla di «coesistenza pacifica», del Vietnam e di Cuba, nel Consiglio regionale di Cagliari. E per dibattere questi argomenti, si trascura quello dei porti e dei caseifici.
Stavolta non sono andato a trovare a Nuoro il mio vecchio amico Mastino, padre dell’autonomismo sardo, per chiedergli se è questa la Regione che lui e Lussu sognarono e patrocinarono nell’altro dopoguerra. Ma credo che il suo ritiro e il suo silenzio siano già una risposta.